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È inutile fare finta di nulla. Nella giornata inaugurale dell’undicesima edizione del Way Out West l’attesa è tutta per Frank Ocean che, dopo aver disertato per lo sconforto generale il Primavera Sound, si è presentato dal vivo per tre date di warm up a giugno in Europa prima di tornare per due grandi festival negli Stati Uniti. Misteriosi ritardi di produzione, capiremo perché a fine serata. Una fila ordinata e silenziosa si dispone già dalle prime ore del pomeriggio davanti allo stand del merch “Blonded” dove uno dei personaggi più chiacchierati e amati della nostra epoca, metterà in vendita dei prodotti a tiratura limitata dedicati alla prima tappa del suo tour estivo. A questi affezionati di tutte le età sembra non importare di un cartellone che fin dalla giornata inaugurale si dimostra, al solito, eterogeneo e maledettamente sul pezzo. E il live del trentenne cresciuto a New Orleans sarà solo il punto più alto ed emozionante di una giornata di assoluto livello.
Il battesimo del weekend è assegnato a uno dei tanti nomi ripescati nella programmazione, tra coloro che avevano reso la Svezia una delle aree più calde della scena indipendente degli Anni Zero. Una sorta di omaggio e tributo a quella “golden age” di cui The Radio Dept. erano a pieno titolo tra i capofila. Il tempo è passato, un po’ si nota, ma bisogna ammettere che rispetto alle timide, per usare un eufemismo, esibizioni dell’epoca messe in scena del duo di Lund, un decennio dopo l’esperienza inizia a farsi sentire. Tra i vecchi brani da malinconia C86 e le nuove ballad elettroniche filtrate dalla loro fascinazione chillwave, il live è il preludio perfetto a una lunga e varia giornata nello splendido, e stranamente soleggiato, parco di Slottsskogen che ospita il WOW.
Dopo di loro, bisogna ammortizzare le prime (e uniche) due defezioni del weekend, curiosamente in contemporanea, quella di Beth Ditto (Gossip), sostituita dalla songwriter local Slowgold, e di The Black Madonna, nel palco di Red Bull Music Academy. Da questo momento in poi, i tempi diventano molto serrati, a partire dallo show di Angel Olsen, perfetto per la metà pomeriggio, sotto al tendone Linné, unico palco, insieme al Dungen, dov’è possibile consumare alcolici (nei due main stage esistono delle aree recintate laterali dov’è possibile farlo). La trentenne di St. Louis è diventata in pochi anni un’artista da grandi palchi, con una sicurezza nei propri mezzi e una vena adulta che la stanno trasformando in uno dei nomi cantautorali americani tra i più apprezzati trasversalmente.
Senza grandi picchi di emozione, ma senza cali di tensione. E in questo filone idealmente adulto, dopo di lei, tocca a The Shins, band di culto lontana troppo tempo dai palchi europei. Su ogni loro brano si potrebbe scrivere una storia a sé, stupisce la quantità di under 25 (o forse anche under 20) assiepati sotto il sole a cantare canzoni ormai dimenticate. James Mercer scherzandoci su, chiede scusa per il sole che hanno portato in una delle città più piovose del Nord Europa, ma anche grazie al clima praticamente perfetto, il live si trasforma in una festa molto liberatoria e gioiosa.
Dopo tante chitarre, avvicinandosi al tramonto, ci si tuffa in quelle sonorità che stanno diventando sempre più preponderanti in uno dei festival più attento ai trend del momento. Si parte con violenza da Danny Brown, una delle figure più eccentriche e innovative della scena hip hop a stelle strisce. Il trentaseienne di Detroit, anche con un taglio e una dentatura più austera, resta un’autentica macchina da guerra. Tra vecchi anthem, come dall’introduttiva “Die Like a Rockstar”, e poi “Grown Up” e “Monopoly”, ripescate a sorpresa e accolte da una sorta di guerriglia, alle nuove straripanti track da “Atrocity Exhibition” (su tutte “Ain’t No Funny”, “Really Doe”, “When It Rain”). La platea è scatenata, l’hip hop tra i giovani di queste parti rappresenta quello che qualche decennio fa poteva rappresentare per un’altra generazione il punk/hardcore. Al mosh partecipano e contribuiscono anche ragazzine molto giovani. Esplosivo.
Flume e Tove Styrke regalano una pausa e un po’ di respiro dopo il bombardamento di Danny Brown e, a vario titolo, rappresentano bene le altre due anime prevalenti del Way Out West degli ultimi anni. Fenomeni elettronici un po’ fighetti e adatti a tutte le orecchie (per lo più protette da immancabili tappi attenutori) che si alternano sui palchi principali a fenomeni pop nazionali, da noi per lo più ignorati, ma che soprattutto in Inghilterra e Stati Uniti, spopolano piuttosto velocemente. Lui lo si conosce, ma prendete immediatamente nota su di lei. Magari il nome Tove (vedi Tove Lo) porterà ancora una volta bene.
Il tempo di bere un paio di birre “ekologisk” in bottiglia di plastica biodegradabile e arriva un altro dei momenti più attesi della giornata. Attivi da qualche anno, negli ultimi mesi i Migos, un po’ grazie alla loro comparsata nel tv show Atlanta e soprattutto grazie a un paio di singoli che sono arrivati anche da noi, si sono confermati con il celebratissimo “Culture”, il progetto trap più importante del momento. Chiamati da guest in tantissimi singoli dell’olimpo pop internazionale, remixati e suonati in tutte le salse, Takeoff, Quavo e Offset, nonostante l’orario, accendono il pubblico formato da giovanissimi, ma non solo. Si fanno attendere, come le star, in una delle poche date europee di quest’anno, introdotti da un interminabile djset hip hop ad altissimo volume, e non appena guadagnano il palco, non si capisce più nulla. I moshpit si susseguono senza soluzione di continuità come se fosse un mega raduno metal anni 90. Le hit arrivano tutte di seguito, tra fuochi d’artificio (molto artificiali) e gas sparato contro il pubblico. Il volume delle basse è da arresto, ma restare fermi è impossibile. Su “Bad’n’Boujee” probabilmente si sarà avvertita una scossa di terremoto in tutta la Svezia Occidentale.
Di fenomeno black in fenomeno black, sotto al tendone guadagna il palco un altro dei nomi più chiacchierati del momento, trasformatosi negli ultimi due dischi, da canonico rapper trap a vocalist con un timbro ormai inconfondibile. Young Thug fa ballare e diverte, senza apparati scenici particolari: c’è solo il suo carisma e i suoi incredibili singoli. E soprattutto la sua voce. Ha ventisei anni, ma ne dimostra a tratti anche il doppio, per un live incentrato per lo più sui suoi due ultimi lavori, “Jeffery” e “Beautiful Thugger Girls”, ma tutti gli anthem arrivano e sono accolti, come di consueto, da un’onda impazzita di chiome bionde in delirio.
Mentre i Pixies finiscono il loro set su uno dei due main stage, sul palco opposto una folla silenziosa si raduna attorno al palchetto collegato allo stage (svuotato per creare questo set) montato per l’occasione in mezzo alla platea e appena un’ora prima invaso dai tre Migos che ne hanno spoleirato l’esistenza. Frank Ocean si fa attendere venti minuti prima di entrare in scena. Lo spettacolo dà l’idea della riproduzione intima di un bedroom studio, amplificazione montata intorno alla platea, luci fisse e un’ora e passa di insistenti brividi lungo la schiena. Dopo l’intro da club di “Pretty Sweet” che svela questo impianto audio a 360 gradi, si parte con “Solo” e potrebbe già finire qui. Non vola una mosca, tutti sembrano assorti al cospetto del loro sobrio eroe contemporaneo. Tra un sorriso e qualche battuta sulla temperatura troppo bassa per un southern boy come lui, Frank alterna novità post-Blond, come la struggente “Chanel”, “Biking” e “Lens”, praticamente tutte le tracce del suo secondo LP ufficiale, riproducibili con questo set solenne e minimale. Al suo fianco ci sono due nostre vecchie conoscenze (Alex G e Ed Hayes degli Yuck), il songwriter Rex Orange County e altri fedeli collaboratori come Buddy Ross e Ben Reed. Alle sue spalle e al suo fianco diversi cameraman che lo inseguono e, anche grazie alla qualità video incredibile, ci trasporta in una sorta di realtà virtuale al suo fianco. Il perfezionismo è maniacale, un paio di volte Frank decide di riprendere i brani dall’inizio come se fosse davvero in sala prove davanti a diecimila e passa voyeur che sbirciano nel suo complicato mondo. A sorpresa sulla pedana sbuca fuori un’orchestra di una ventina di elementi, per la prima volta nel tour di “Blond” e questo strano rito diventa un’esperienza da lacrime. “Good Guy”, “Self Control” (introdotta da “Poolside Convo”, “Wither”, “Close To You”, seguita dalla cover di “Never Can Say Goodbye” dei Jackson 5, e poi “Ivy” “Pink + White”, e manca davvero il fiato. Sul finale il pathos torna a livelli umani con le più terrene “Nights” e “Pyramids” con tanto di laser. Frank sembra davvero preso bene, la voce è calda, soul, avvolgente e quando regala sul finale la romantica “Thinking Bout You” da “Channel Orange” per poi decidere di farsi aiutare dal pubblico in un karaoke interattivo su “Nikes” in molti si commuovono per davvero. Avere la forza di vedere qualcos’altro dopo uno spettacolo del genere è davvero durissima (non vedete foto perché per policy dell’artista non sono state premesse, ma potete farvi un’idea con i video di seguito).
Ci sarebbe tantissimo da dire sulla rabbiosa Young M.A., nuova rapper di riferimento della scena di New York che nonostante l’orario ha scaldato gli animi e si è dimostrata un assoluto animale da palco, come potrete notare dal video su. Altro da dire ci sarebbe sul set sui generis di Actress, e sul giovane eroe nazionale Lorentz (a vederlo c’è persino Danny Brown al mio fianco), e poi ancora sulle promesse pop Alma e Anne-Marie, sui francesi Her che accendono la voglia di continuare a fare party fino a notte fonda, in uno dei tre spazi del Bananpiren, la main venue sul molo della programmazione notturna dello Stay Out West.
Ma per un po’ di tempo, resteremo con la testa e con il cuore, ancora idealmente immersi nell’incredibile esperienza che ha chiuso i live nel parco in questa intenso day 1.
Foto di Chiara Viola Donati (Instagram: @chiaraviolenta)
Guarda il report del day 2 qui.