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Siccome il percorso musicale dei The National è intimamente legato a quello umano/spirituale, è utile (e meraviglioso) programmare una scorribanda nei progetti collaterali di ognuno dei membri del gruppo. Quanto tutto si voglia fortemente legare ad un processo costante di modellazione sonora legata alla maturazione, alla ricerca di modalità espressive che racchiudano “universi”, è evidente sin da quando per raccogliere fondi per la Red Hot Organization (ricerca per la cura dell’AIDS), i fratelli Dessner mettono su “Dark Was The Night” (2009), compilation di pezzi nuovi che è molto di più di una semplice raccolta: è il manifesto di chi gravitava attorno alla scena di Brooklyn, mai ufficialmente riconosciuta.
Oltre ciò che rimane oggi di quella fantomatica scena, non stupisce, quindi, che Bryce sia stato recente colonna portante (in fase di arrangiamento e sistemazione pezzi) del progetto “Planetarium” con Nico Muhly, James McAlister e Sufjian Stevens. Già, Sufjian, anche lui in DWST come Justin Vernon, entrambi visionari di un pop cantautorale che assume forme disparate pur essendo legate al cuore “canzone”, come avviene (a modo loro) in ogni disco della nazionale.
Da lì, l’elenco di collaborazioni e progetti personali si estendono. Nell’orbita del pianeta principale rientrano Shannon Wright, Annie Clark e lo storico Kronos Quartet, così come altri progetti veri e propri. Matt è stato anima degli EL VY con Brent Knopf (Ramona Falls e Menomena), gruppo alt-pop dalla vocazione “mainstream” con all’attivo “Return To The Moon”, lavoro non propriamente riuscito.
Risultati decisamente migliori ha ottenuto Bryce con i Clogs sulle orme dei Rachel’s e dei The Books, Aaron ha svolto alla grande lavoro di produzione per dischi di Local Natives, Lisa Hannigan, Frightened Rabbit, Scott e Bryan hanno messo su nel 2016 i LNZNDRF con Ben Lanz, mentre il solo Bryan ha sfogato la sua voglia di sperimentazione assieme a Dave Nelson e Danny Seim con i Pfarmers.
Non sarebbe giusto tacere dell’impegno politico del gruppo, dei festival organizzati, di progetti tirati su con e per amore come per “Day Of The Dead” il tributo ai Grateful Dead. Scavando ancora la ramificazione dei rapporti umani e “lavorativi” è enorme e racchiude più di un’ipotetica scena e meriterebbe un approfondimento molto più ampio e “pesante”. Anche così, rimane evidente una sorta di “omnicomprensività” di intenti e di modo di intendere il mestiere di musicista che è alla base di qualsiasi crescita professionale e la certezza che i The National, sin dall’inizio, non erano lì per lanciare nel mare magnum di uscite qualcosa da “mordi e fuggi” o di derivativo. Le influenze sono evidenti, ma sono disparate ed estese e non si può ignorare il modo e la visione con cui il tutto viene affrontato. Se lo possono permettere solo i davvero grandi.
(Giampaolo Cristofaro)