Share This Article
Non fu un esordio folgorante al tempo e nemmeno oggi fa gridare al miracolo pur essendo un album discreto: “The National” arrivò così, in sordina e in controtendenza, e non rappresentò un album alla moda nel tempo e nello spazio; in più i National non erano ancora riusciti a sviluppare appieno quella caratteristica di “dandy” (americani) sinceri e ruspanti che è stata poi la loro cifra stilistica successiva, e si sente. Ma andiamo per gradi.
Come si sa, i vari membri dei National si trasferiscono sul finire degli anni ’90 da Cincinnati a Brooklyn per ragioni di lavoro, legate soprattutto alla new economy del tempo, e i National diventano più che altro un modo per dei forestieri concittadini di suonare insieme nella nuova, grande città, quasi fosse una rimpatriata. Di quelli che poi saranno i cinque membri definitivi, al primo album – pubblicato nell’ottobre 2001 – contribuiscono solo in quattro senza il chitarrista Bryce Dessner, non ancora nella band ma comunque già dentro alla Brassland Records, etichetta “in house” che pubblica l’album.
E infatti in questa logica da “dopolavoristi” i National mantengono l’approccio ruspante del rock americano della provincia senza aver ancora assimilato l’eleganza della metropoli, come se suonassero più per i tempi (e i luoghi) passati che per il presente (di certo non per un futuro da musicisti professionisti). A NY è l’epoca degli Strokes (“Is This It” uscì ad agosto), la città ha appena subito il lutto delle Twin Towers ma qui non c’è traccia né dell’uno né dell’altro aspetto: il suono-Strokes è legato alle tendenze ed esso stesso tendenza , lo sfregio indelebile dell’11 settembre arriva quanto l’album è già pronto. “The National” è dunque un album decisamente in offside.
Anche la copertina del disco – a ben guardare – appare fuori fase: c’è la foto da rivista di un Bryan Devendorf in piscina che fa immaginare un album raffinato e chic, un po’ british “alla Blur”, mentre invece il contenuto è americana a più non posso.
Che poi il linguaggio è comunque già riconoscibile, col senno di poi: esemplificativa è l’iniziale “Beautiful Head”, che parte a piè sospinto e che evolve in un ritornello galante con qualche notina di pianoforte gentile e di hammond caldo, la ballata dal sapore Wilco di “Cold Girl Fever”, l’amata “American Mary”. In pratica il National-style nasce subito, anche se la band guarda ai Rolling Stones come in “Pay For Me” o al folk più traditional come in “Watching You Well”. Riconoscibile però non vuol dire evoluto, quella caratteristica verrà più tardi quando i cinque saranno sempre più coscienti dei loro mezzi. Per ora, in quel 2001 che oggi pare così lontano e così vicino, i National utilizzano la loro capacità di scrittura – già alta – senza troppa intensità o, meglio, convinzione. La produzione “casalinga” certamente non aiuta e rende l’ascolto complessivo di “The National” un po’ piatto, senza particolari scossoni.
Ma le canzoni – urka – quelle ci sono già, ed è già qui che i nostri iniziano a porre le basi per la loro epopea. Lo fanno con belle canzoni senza curarsi dei mezzi e dei risultati, e molte volte questo è un atteggiamento che, se hai i numeri, alla lunga paga.
69/100
(Paolo Bardelli)