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I Kikagaku Moyo sono oramai una realtà consolidata nel mondo del rock psichedelico e che dopo avere cominciato nel 2012 suonando per le strade di Tokyo, sono in breve diventati una realtà conosciuta a livello mondiale e seguita da un grande numero di appassionati.
Le grandi capacità di questo collettivo del resto sono evidenti. I degni eredi di una cultura musicale acid-rock psichedelica e che ci viene raccontata in maniera unica e esemplare da un autore speciale e eccentrico come Julian Cope in “Japrocksampler” (il gemello giapponese di “Krautrocksampler”) i Kikagaku Moyo di Tomo Katsurada (altri membri del gruppo sono: Daoud Popal, Ryu Kurosawa, Kotsu Guy, Go Kurosawa) possono essere considerati a pieno titoli come gli eredi di gruppi come J.A. Caesar, Taj Mahal Travellers, Flower Travellin’ Band, Les Rallizes Denudes e contemporanei de gli Acid Mothers Temple di quella specie di guru che corrisponde al nome di Osaka Kawabata Makoto, come la realtà musicale più interessante Made in Japan degli ultimi anni.
Disco dopo disco e in particolare a partire da “Forest of Lost Children” del 2014, la band ha finalmente trovato quella che possiamo definire come una giusta dimensione e una consapevolezza nei propri mezzi che rendono oggi questo gruppo qualche cosa più di che una realtà apprezzabile solo per la devozione a una certa cultura hippie eccentrica e lo sperimentalismo. D’altro canto, se il già citato “Forest of Lost Children” e “House In THe Tall Grass” erano dischi fondamentalmente di canzoni, in questo ultimo lavoro (“Stone Garden EP”) registrato ai Faust Studio di Praga nel maggio 2016 e masterizzato dallo storico collaboratore della band Yui Kimijina, si alternano sonorità differenti e non mancano comunque determinate spinte sperimentali, senza però deviare mai in nessun caso dalla direttrice principale.
Caratterizzato da una certa attitudine garage MC5 e Blue Cheer (“Blacklash”) “Stone Garden” apre a diverse influenze tutte comunque ascrivibili al macro-genere psichedelico, come quelle della musica indiana (“Nobakitani”), del kraut-rock (“Trilobites” e “In A Coil”) e il folk tradizionale (“Floating Leaf”). Qua e là inevitabili i rimandi alla musica tradizionale giapponese e alcune fascinazioni che definirei quasi morriconiane.
Parliamo di uno di quei dischi le cui visioni sono quelle tipiche che ti spalancano gli occhi della mente e che sono ispirate a principi come la libertà e il contatto primitivo con le forze della natura. Registrato a chilometri di distanza dal Giappone e nel mezzo dell’Europa, se chiudiamo gli occhi, ascoltandone le note, ci ritroviamo comunque immersi in un campo di fiori di loto e completamente assorti in uno stato di serena pace e contemplazione.
87/100
(Emiliano D’Aniello)