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L’immagine di copertina è un fotogramma tratto da “Vtáčkovia, siroty a blázni” (1969) – in italiano “Gli orfani, gli uccelli e i pazzi” – film cecoslovacco diretto da Juraj Jakubisko
La [top 7] Oltre la cortina di ferro , contenente come al solito (per noi di Kalporz) sette canzoni, è stata pensata in occasione del centenario della Rivoluzione di Ottobre, quella che viene considerata la “rivoluzione russa incruenta” (se paragonata alle altre due, 1905 e febbraio 1917) per mezzo della quale i bolscevichi, capitanati da Lenin e sostenuti da Lev D. Trockij (presidente del soviet di Pietrogrado), prendono il potere occupando le sedi del governo nell’ottobre 1917 (novembre secondo il calendario gregoriano).
La playlist vuole quindi essere una selezione di alcuni dei brani più interessanti della produzione discografica pubblicata – o a volte anche solo circolata illegalmente e inedita – nei paesi sostenenti il Patto di Varsavia (1955-1991): l’alleanza militare tra l’Unione Sovietica e le democrazie popolari dell’Est europeo (Cecoslovacchia, Germania Est, Polonia, Romania, Ungheria, Albania – anche se quest’ultima non ne fa più parte formalmente a partire dal 1968).
Anni difficili e duri per la musica per tanti e vari motivi – censura, nazionalizzazione discografica (con la presenza di una sola etichetta di stato in molti paesi), il controllo implicito dei musicisti con la licenza da professionista ecc. – ma che nascondono momenti interessanti. La top 7 ne raccoglie alcuni:
7. Piotr Figiel, “Śniadanie O Północy”
“Śniadanie O Północy” (in inglese, “Breakfast At Midnight”) è tra i nove brani raccolti nell’omonimo primo disco – pubblicato nel 1971 dalla Pronit – del polacco Piotr Figiel, pianista, arrangiatore (per altri artisti), compositore per cinema e teatro. Il lavoro, pur mantenendo l’imprinting jazz del musicista varsaviano, ha forti venature funk e sfumature fusion, easy listening; e un pezzo come “Dyplomowany galernik” recentemente è stato anche inserito nella compilation antologica dedicata al funk polacco “Polish Funk – The Unique Selection of Rare Grooves from Poland of the 70’s” (Polskie Nagrania Muza, 2007). Da notare poi che l’album è anche conosciuto con il nome “Organy Hammonda” : un titolo non scelto a caso, tutte le tracce dell’LP sono infatti fortemente caratterizzate dall’utilizzo dell’organo Hammond, strumento scoperto e imparato a conoscere da Fiegel durante il suo soggiorno triennale in Scandinavia.
6. Czesław Niemen & Akwarele , “Niepotrzebni”
Czesław Niemen, all’anagrafe Czesław Juliusz Wydrzycki, nato nel 1939 a Stare Wasiliszki – città, appartenente alla regione e distretto di Grodno, facente parte durante la Pace di Riga della Seconda Repubblica di Polonia e poi, dopo la seconda guerra mondiale, annesso per via sovietica alla Bielorussia – è tra le figure più eclettiche del panorama rock polacco anni sessanta e settanta, meno variegato rispetto a quello ungherese e cecoslovacco : dopo un inizio di carriera, nei primi anni sessanta, tra il 1963 e il 1965, con il gruppo beat Niebiesko Czarni, Niemen (nome d’arte, tributo al fiume omonimo – in italiano Nemunas – che attraversa la città di Grodno) intraprende una carriera da solista – accompagnato prima, nel biennio 1967-69, dalla band Akwarele e poi, a partire dal disco “Vol.2” (1973), dai Grupa Niemen, ovvero Józef Skrzek, Jerzy Piotrowski, Antymos Apostolis (poi conosciuti come SBB) e infine, dal 1974 al 1977, dagli Aerolit (N.Æ.) – all’insegna di un camaleontismo artistico e creativo sincero e ispirato: agli esordi, in album come “Dziwny jest ten świat… (1967), “Sukces” (1968), “Czy mnie jeszcze pamiętasz?” (1969), si fa autore e interprete, in maniera personale, di un beat in chiave soul – grazie a una voce calda e avvolgente – sporcato di rhythm & blues; e poi, negli anni settanta e ottanta, il discorso compositivo subisce un continuo processo di evoluzione e di sperimentazione, mettendo da parte la musica beat per abbracciare nuove strade sonore, dal prog alla musica tradizionale (è il caso di “Russische Lieder”, cantato in lingua russa), dal jazz all’elettronica di stampo tedesco (“Katharsis”, 1975). Fino ad esplorare anche altri arti: il teatro (nel 1976-77 collabora con il Teatro Internazionale di Varsavia, la pittura.
Il culmine creativo è “Idée Fixe” (1978) : un doppio album – non il primo che abbia fatto Niemen – che è la summa della poetica musicale dell’artista.
La maggioranza delle produzioni discografiche di Niemen viene pubblicata dalla polacca Polskie Nagrania Muza (una delle etichette principali insieme a Pronit e Tonpress); altri dischi vengono dati alle stampe dalla CGD italiana – che pubblica tre 45 giri, contenenti brani cantati in italiano come “Io senza lei” (versione stravolta della canzone di protesta “Dziwny jest ten świat”)- e dalla CBS, che stampa album pensati esclusivamente per il mercato europeo (tedesco, inglese, in alcuni olandese): dischi come “Strange is This World” (1972), “Ode to Venus”(1973) e “Mourner’s Rhapsody” (1974), contenenti versioni riarrangiate e cantate in inglese di brani già editi – come nel caso di “Z pierwszych ważniejszych odkryć” che diventa per “From the First Major Discoveries” o ” Marionetki” tradotto come “Puppets” – e nuove composizioni che incarnano l’eterogeneità della proposta musicale di Niemen, dal soul “I’ve got no one who needs me” all’hard prog di “Why did you stop loving me”.
“Niepotrzebni”, scelta per questa top 7, è tra gli episodi migliori del primo Czesław Niemen, quello con un’anima smaccatamente black.
5. Jaan Kuman Instrumental Ensemble, “Terminus”
Jaan Kuman è un trombettista estone, con la sua ensemble – negli anni settanta – ha coniugato il jazz nelle sue varie forme, da quelle più tradizionali a quelle più ibride (tendenti al funk, per intenderci). La compilation “Instrumental Ensemble” (pubblicata dalla finlandese Jazzaggression nel 2013), che raccoglie brani rari del musicista registrati tra il 1974 e 1977, rappresenta al meglio la fase jazz funk di Kuman. E “Terminus”, dal groove bello corposo, è tra le tracce migliori.
4. Rodion G.A., “Alpha Centauri”
Rodion G.A. è il progetto musicale, tra elettronica e psichedelia, di Rodion Ladislau Roșca , musicista originario di Cluj – città del Nord-ovest della Romania con una forte comunità ungherese – e tra le figure più significative della musica romena non convenzionale, insieme a gruppi prog rock come Chromatic, Experimental Quartet (poi Experimental Quintet), Roșu și Negru , Progresiv Tim , Sfinx e Phoenix.
La passione di Roșca per la musica e la chitarra nasce in prima media, quando – dopo aver visto un compagno di scuola con batteria giocattolo, chitarra e registratore – convince la madre a comprargli una chitarra. L’amore per le sette note continua, però, tutta la vita, fino alla morte del genitore nel 1989: durante il periodo più aperto, 1965-1971, del regime di Ceausescu comincia a comprare, ascoltare dischi – oltrepassando spesso i confini rumeno-ungheresi e tenendo corrispondenze con collezionisti stranieri – e, più tardi, verrà anche soprannominato King of Records (re dei dischi, appunto).
“Intorno al 1965 alcuni artisti pop romeni e stranieri cominciarono a emergere. Cliff Richard, Tom Jones e iniziarono a piacermi le varie hits, quelle più suonate. […] Quando mia zia andava in visita da qualche parte, le chiedevo di portarmi qualche disco. Nel 1975 fui chiamato il re dei dischi. Avevo dischi jazz, hard rock, underground. Avevo l’intera discografia di Frank Zappa. Ed è un ascolto difficile. Avevo dischi di If, Yes, Jethro Tull. “
(Rodion Ladislau Roșca intervistato da Ion Dumitrescu, facente parte del collettivo Future Nuggets)
E non mancano ovviamente, tra il 1969 e il 1972, le prime registrazioni realizzate con un Tesla Sonet Duo, comprato dall’amico Radu Ghiţa. Arrivano subito anche i tentativi di sperimentazione – il registratore a nastro usato come macchina per l’eco e amplificatore della chitarra – e le prove con una band, poi diventata Rodion G.A., fondata insieme a Gicu Fărcaș and Adrian Căpraru (G.A. sono infatti le prime lettere di Gicu e Adrian). Nel corso degli anni il gruppo, pur avendo l’opportunità (non frequente per tanti musicisti) di raggiungere con la propria musica la radio e la televisione nazionale – storica la partecipazione, datata 1980, con “Stele si lumini“ al capodanno televisivo – durante il periodo di attività non pubblica nessun disco, fatta eccezione per due brani inseriti nella compilation “Formații Rock”, data alle stampe nel 1981 dall’etichetta di stato Electrecord. Registrano due o tre volte due/tre brani a session in uno studio a Cluj e poi una volta suonano nello studio, a Bucharest, della Electrecord.
Il clima politico in Romania, però, dopo le Tesi di Luglio* nel 1971, è di quelle pesanti e non facili per la discografia (quella rock ridotta a poche pubblicazioni sull’etichetta di stato).
“Ceausescu, che ha distrutto la mia gioventù e la mia vita, insieme ad altre persone, non era interessato a chiudere la radio e le stazioni televisive perché erano i canali principali per la sua propaganda. Negli ultimi anni del suo regime le trasmissioni televisive sono state limitate a due ore, dalle otto alle dieci di sera : due interminabili notiziari. Lui, e sua moglie, compreso il governo, ha inventato una legislazione per vietare ai cittadini di usufruire e promuovere in Romania le arti occidentali, i suoni, i ritmi aggressivi, la moda, la cultura, la musica rock .
(Rosça intervistato da Noisey, settembre 2014) “
Le registrazioni dei Rodion G.A. non finiscono, quindi, su nessun supporto fonografico. Ma il gruppo non si perde comunque d’animo rimanendo attivo sul piano live, quello dei concerti – l’ultimo è stato al Mangalia Festival nel 1987.
Solo nel 2012, però, quando il regista e blogger Luca Sorin riscopre del materiale audio e video dei Rodion G.A., l’interesse per la musica di Roșca ritorna a essere vivo. Lo dimostrano il tour europeo (organizzato dal collettivo Future Nuggets) e le tre pubblicazioni discografiche, uscite a nome Rodion G.A., tra 2013 e 2014: la raccolta “The Lost Tapes” per la britannica Strut Records; la stampa di una colonna sonora, mai edita, per un cartone animato – “Misiunea Spațială Delta” (sempre per la Strut) – e il recupero di un album andato perso, “Behind The Curtain (The Lost Album)” (per un ‘altra etichetta del Regno Unito, la BBE).
A sorprendere è la ricchezza di idee musicali – un’elettronica artigianale e minimale ma piena di spunti, intuizioni – del musicista romeno, nonostante la povertà dei mezzi: i brani raccolti in “The Lost Tapes” – tra le prime composizioni di un adolescente Roșca – sono stati realizzati con un registratore Tesla Sonet Duo, una Casio VL-Tone (tastiera elettronica di piccole dimensioni, economica e con funzioni da sintetizzatore, frequencer e calcolatrice), una drum machine Vermona e un organo Faemi, utilizzata con l’aggiunta di phaser, flanger e pedali. Canzoni, come “Alpha Centauri” e “Salt (83)”, sono state prodotte con una rhythm machine – la già citata Vermona – scegliendo tempo e ritmo e suonando poi la chitarra.
“Una volta registravo le batterie e mettevo sopra le armonie. Altre volte facevo la base con le drum machine e la chitarra così salvavo un canale, evitando la continua fusione dei canali. Ho fatto la traccia “Caravane”, ho fatto la traccia “Paradox”, ho fatto “Imagini Din Vis” basandomi solo sulle batterie campionate dalla traccia “Ore” e nessuno di questi brani suona alla stessa maniera.”
(Rodion Ladislau Roșca intervistato da Ion Dumitrescu, facente parte del collettivo Future Nuggets)
“Alpha Centauri”, canzone scelta per la nostra top 7, rappresenta al meglio lo spirito delle prime cose prodotte da Roșca : semplicità e fantasia.
“Sorprendentemente quella traccia è stata fatta per noia e relax. Era un momento di riposo tra tracce più nervose e ho lasciato entrare suoni più lunghi. Ho aggiunto le percussioni…è una traccia che ti lascia sognare, è confortante e molto pulita. Ricordo di aver usato un giocattolo, una Casio VL Tone, da dove ho preso lo zuffolo, il flauto e l’oboe.”
(Rodion Roșca intervistato dal sito The Attic, maggio 2014)
*tra le tesi: “un’espansione della propaganda politica, coinvolgendo radio e spettacoli televisivi così come le case editrici, i teatri e il cinema, l’opera, il balletto e le unioni degli artisti ecc.”
3. The Matadors, “Extraction”
The Matadors, tra gli esponenti più interessanti dell’ondata beat cecoslovacca, sono tra le band che arrivano a pubblicare – cosa non facile – una serie di singoli, EP e un disco omonimo (uscito nel 1968). Inizialmente noti come Fontana (The Fontanas), cambiano poi nome in Matadors, quando – nel 1965 – il manager e primo batterista Wilfried Jelinek stila un accordo di sponsorizzazione con un produttore di strumentazioni musicali, F. A. Böhm di Klingenthal (Germania Est, all’epoca). L’organo, modello Matador, diventa quindi un elemento centrale del suono del gruppo: esempio n’è il lato A – “Malej zvon, co mám” – del primo singolo edito nel 1966. La formazione – composta da Radim Hladík (chitarra), Otto Bezloja (basso), Jan “Farmer” Obermayer (prima sax e poi organo), Miroslav Schwarz (batteria – conosciuto come Tony Black) – nel corso della sua storia ha due cantanti: Karel Kahovec e Viktor Sodoma (già nei Flamengo). E con quest’ultimo, vero e proprio animale dal palco, fanno anche qualche concerto in Occidente (Svizzera e Belgio) e pubblicano il primo e unico 33 giri a nome Matadors, contenente tutti brani cantati in inglese: c’è spazio per alcune cover – “My Girl”, “I’m So Lonesome”, “It’s All Over Now, Baby Blue” – e per canzoni originali caratterizzate da una sintesi, particolare e non banale, delle proprie influenze beat e garage. E non è un caso, quindi, che la traccia di apertura – “Get Down From the Tree” – sia finita nel box set della Rhino Records, “Nuggets II (Original Artyfacts From The British Empire And Beyond 1964-1969)”.
“Extraction”, forse il pezzo migliore del disco, è l’apice psichedelico dell’LP: brano strumentale che si estende per sei minuti (la traccia più lunga del vinile) e dalle forte tinte acide.
2. The Plastic People of the Universe, “Podivuhodný mandarin”
I cechi The Plastic People of the Universe, non definibili come band nella classica definizione del termine, sono un collettivo – dallo spirito anarchico – di musicisti (in senso lato), artisti e intellettuali. Nati da un’idea di Milan Hlavsa, nel 1968 come gruppo rock psichedelico prendono il nome da un brano contenuto in “Absolutely Free” degli zappiani The Mothers of the Invention. Sono inizialmente accettati dalla legge, almeno fino al 1970, quando viene revocata la licenza di musicisti, necessaria per essere considerati artisti professionisti e suonare (un po’ come lavorare) pubblicamente e ufficialmente.
Spesso considerati come band politica e politicizzata, una sorta di dissidenti, sono – nella realtà dei fatti e delle cose – un gruppo di persone che non accetta e ha mai accettato le regole del gioco della cultura ufficiale, volendo sempre agire nella più totale libertà, come hanno più volte raccontato i diretti interessati, ovvero il già citato – e membro fondatore – Milan Hlavsa e il sassofonista, nel periodo 1973-82,Vratislav Brabenec:
“I Plastic People sono emersi come altre decine e centinaia di band – amavamo semplicemente il rock’n’roll e volevamo essere famosi. Eravamo troppo giovani per avere una chiara ambizione artistica. Tutto quello che facevamo era pura intuizione, senza affatto nessuna nozione o ambizione politica.”
(Milan Hlavsa in un’intervista fine anni novanta, leggibile sul sito del giornalista Richie Unterberger)
“La nostra identità, come band, aveva a che fare con la poesia, non con la politica. Eravamo più artistici che politici. Sono uno di quelli, le cui azioni culturali, non politiche, furono sufficienti a rendermi sovversivo. I politici ci hanno reso officiali, essendo offesi da quello che facevamo e dalla musica che suonavamo. Non so quanti musicisti nei tempi moderni siano stati messi in prigione perché la loro musica offendeva le autorità ma siamo tra loro. E sebbene adesso sia più rassicurante per noi, siamo ancora culturalmente e artisticamente dissidenti contro la norma.”
(Vratislav Brabenec intervistato in un’articolo dell’inglese The Guardian, 2009)
Senza licenza da musicista professionisti i Plastic People of the Universe operano a livello underground suonando nelle occasioni più impensabili, casuali e sotterranee – feste, matrimoni e altri eventi simili – e hanno dalla loro un gruppo di persone, che li aiuta e sostiene: Ivan Martin Jirous (noto anche come Magor), storico dell’arte e critico culturale, è la mente programmatica, direttore artistico del progetto Plastics – è lui che fa conoscere i dischi di Captain Beefheart, Fugs e Zappa al gruppo – e poi ideatore del Festival Musicale della Seconda Cultura, organizzato per tre edizioni nei villaggi della Boemia – il primo settembre 1974, il 21 febbraio 1976 e il primo ottobre 1977 – e con l’obiettivo di contrapporre una “seconda cultura” alla “prima” (quella ufficiale); Vaclav Havel , drammaturgo d’avanguardia, è redattore, dopo l’arresto e condanna di alcuni componenti dei Plastic People of the Universe, della lettera-manifesto Charta 77 per il rispetto dei diritti umani e, poi, nella sua casa di campagna ospita più volte la band, che suona e registra diversi dischi nel suo granaio; Paul Wilson, giovane professore di inglese e vocalist nella band per un breve periodo (1970-1972), trasferitosi in Canada pubblica con la sue etichetta di Toronto, la Boží Mlýn Productions, i dischi dei Plastic People of The Universe anni settanta e ottanta, registrazioni di bassa qualità ma che testimoniano la vitalità creativa di musicisti come Jiří Kabeš (che suona la viola, strumento che accomuna i Plastic con i Velvet Undergound), Vratislav Brabenec (sax), Josef Janíček (piano elettrico, vibrafono) e tanti altri (impossibile nominarli tutti): autori di qualcosa di difficile catalogazione, un incrocio abrasivo e psichedelico di tendenze sperimentali e d’avanguardia, con il cantato in cieco (voluto espressamente da Paul Wilson).
Grazie a Jirous, Havel e Wilson e tanti altri sostenitori il collettivo riesce, quindi, a portare avanti – anche se in maniera travagliata e illegale – le proprie idee artistiche, almeno fino a fine anni ottanta: quando, per dissidi creativi, il gruppo si spacca in due. Una parte – Milan Hlavsa, Josef Janíček, Jiří Kabeš – forma i Půlnoc – che apriranno anche il concerto parigino di reunion dei Velvet Underground nel giugno 1990 – e l’altra mantiene il nome PPU. Nel 1997, però, per l’anniversario della Charta 77, i Plastic People of the Universe si riuniscono e, ormai in maniera ufficiale, continuano ancora oggi a fare musica, seppur con una formazione totalmente diversa.
“Podivuhodný mandarin” fa parte del primo disco della band, “Egon Bondy’s Happy Hearts Club Banned” (evidente il riferimento ironico all’LP dei Beatles), pubblicato nel 1978 in Francia e contenente registrazioni casalinghe del periodo 1973-1974. I brani, con i testi composti da poesie di Egon Bondy (vero nome Zbyněk Fišer), fotografano la follia compositiva dei Plastic People of the Universe, che non hanno mai suonato con l’idea di entrare in studio (cosa che non hanno mai avuto) e fare un disco. L’album esce, infatti, a insaputa del gruppo.
1. Yuri Morozov, “Neizyasnimoe”
Yuri Morozov è stato forse il personaggio più importante dell’underground russo : polistrumentista e ingegnere del suono ha registrato una serie infinita di dischi, oltre la quarantina. Molti dei quali circolati segretamente durante il regime sovietico.
All’inizio registra in casa e, dal 1976 in poi, sceglie di incominciare a realizzare i propri brani nello studio dove lavora. L’orario migliore è quello della sera, tre o quattro ore fino alla mezzanotte.
La musica di Morozov ha mille sfumature sonore – dalla psichedelia al jazz (è il caso di “Jazz at Night”, 1978), dall’elettronica all’hard rock (si senta un brano come “Кретин”) – ma si caratterizza per una forte spiritualità e misticismo, come racconta lo stesso musicista nel documentario a lui dedicato, “The Rock-Monoloque. Yuri Morozov” (2007), diretto da Vladimir Kozlov:
“La cosa più importante che mi ha colpito alla testa, all’età di sedici anni, e non mi ha mai lasciato nella mia vita è la musica. Dentro di me, fin dall’inizio, la musica è stato connessa a qualcosa di mistico e spirituale. Non sono mai stato attratto dalla musica pop, da quelle che chiamano hit. Non ho mai avuto nessuna hit, nel senso comune della parola”.
E ancora:
“Quando salivo sul palco, non pensavo alle ragazze e all’alcol ma a come creare una finestra nel cielo con la mia musica. E tutto questo non interessa alle persone…”
“Neizyasnimoe” (1978), distribuito di contrabbando in cassetta e mai pubblicato ufficialmente su vinile, è diviso in cinque parti: tracce strumentali, fortemente immaginifiche, orientate verso l’elettronica dei corrieri cosmici tedeschi ma che contengono al proprio interno sfumature sonore dalle molteplici sfaccettature: l’intro di qualche secondo con la balalaika e la conclusione heavy psych della terza parte; le vibrazioni funk della quarta parte.
(Monica Mazzoli)