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Trattandosi di quello che è uno dei dischi più attesi dell’anno, la collaborazione tra due dei nomi più ‘hype’ nel mondo della musica indipendente, Courtney Barnett e Kurt Vile, ha attirato giustamente grandi attenzioni ed è stato tanto acclamato quanto eventualmente bersagliato dalla critica. Ma probabilmente non poteva andare diversamente, considerando la fama ottenuta dai due negli ultimi anni e specialmente da Kurt Vile, la cui popolarità è andata crescendo di pari passo a quella dei suoi ‘cugini’, i War On Drugs di Adan Granduciel, dimostrando una certa creatività fino a quando, dopo aver raggiunto l’apice con ‘Smoke Ring For My Halo’ (2011), a partire dal successivo ‘Wakin on a Pretty Daze’ (2013) si è perso a mio parere nella ricerca di determinati manierismi e una certa estetica fine a se stessa.
Da questo punto di vista ‘Lotta Sea Lice’ e l’incontro e la collaborazione con Courtney Barnett sono qualche cosa di assolutamente positivo per il chitarrista di Philadelphia che lavorando a stretto con un’artista dall’indole più istintiva, riscopre una certa semplicità che poi si traduce in una collezione di canzoni oneste, che definirei giustamente graziose, e che senza puntare troppo in alto centrano perfettamente il bersaglio.
Non gridiamo al capolavoro infatti, ma il risultato finale è tutto sommato positivo, considerando il fatto che ci troviamo in primo luogo davanti a un prodotto di qualità: registrato e mixato da Callum Barter presso i Newmarket Studios, North Melbourne, il disco vede infatti la partecipazione di qualche pezzo da novanta tra cui Jim White, Rob Laasko dei Violators e uno dei musicisti e produttori più influenti degli ultimi vent’anni, cioè quello che è stato per tanti anni la controparte di Nick Cave, il cantautore e polistrumentista Mick Harvey.
A dispetto della copertina, che ritrae i nostri in bianco e nero, ‘Lotta Sea Lice’ si caratterizza per i toni colorati e che guardano a una certa psichedelia degli anni sessanta-settanta, ma senza essere forzatamente vintage e con quella giusta spontaneità che poi costituisce il vero e proprio punto di forza del disco. Questo vale tanto in alcuni riferimenti a un certo Lou Reed (‘Continental Breakfast’) oppure a Neil Young (‘Blue Cheese’, ‘Peppin’ Tom’) tanto quanto nello jangle pop radiofonico e la psichedelia semplice e minimale di ‘Over Everything’ e ‘Let It Go’.
Eppure è praticamente impossibile non cogliere una certa ispirazione a esperienze nel campo della musica indipendente degli ultimi vent’anni e che sono del resto centrali e determinanti nella formazione musicale della coppia e costituiscono la base comune su cui lavorare e il vero e proprio presupposto di questa collaborazione: ‘Fear Is Like A Forest’ e ‘Outta the Woodwork’ rafforzano le atmosfere psichedeliche con una certa ispirazione di derivazione Low e con una maggiore potenza e il vigore delle chitarre elettriche. ‘On Script’ è chiaramente un omaggio ai Pavement, mentre la conclusiva ballata ‘Untogether’ lascia intravedere dei rimandi alle produzioni discografiche di Damon & Naomi.
Non possiamo sapere per ora se la collaborazione avrà un seguito, ma la bontà di questa operazione nel suo complesso non potrà che essere riconosciuta e apprezzata dai fan storici dei due musicisti, oppure da chi è in generale interessato a questo tipo di sonorità. La sensazione positiva del resto è che questo disco sia stato un’occasione importante per un’artista ancora in rampa di lancio come Courtney Barnett e persino salvifica per un altro (Kurt Vile) che aveva bisogno di esprimersi in una forma differente rispetto al passato, riuscendo a aprire orizzonti nuovi e nuove prospettive a entrambi.
65/100
(Emiliano D’Aniello)