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Lo scorso 27 ottobre è uscito per Morr Music il primo LP di Sequoyah Tiger, il progetto della giovane producer/performer veronese Leila Gharib. Per noi è una delle cose italiane più interessanti degli ultimi anni: dopo un EP d’esordio che ha stupito critica e pubblico (“Ta-Ta-Ta-Time“, pubblicato sempre per Morr Music un anno fa), abbiamo deciso di intervistarla per conoscerla un po’ più da vicino.
Partiamo dall’ultima release: “Parabolabandit” è esattamente il tipo di disco che avrei voluto ascoltare: conserva la matrice synth-pop del lavoro precedente e la esalta, così da rendere il tuo stile già riconoscibilissimo dopo soli due album. Quanto era importante per te questo discorso quando hai cominciato a lavorare all’album? Avevi altre intenzioni?
I primi pezzi del progetto sono nati tenendo fissa l’idea di volersi confrontare con la forma canzone e l’espressività della voce. Tutti gli altri elementi sono stati lasciati liberi di prendere qualsiasi forma in termini di strutture, timbriche e strumenti utilizzati. L’altro aspetto che ho voluto portare avanti è stato quello di poter lavorare da sola, avere uno studio in cui trovare un metodo per registrare e produrre musica con i miei tempi in autonomia. In questa dimensione sono nate le cinque tracce del primo EP e le stesse intenzioni sonore hanno preso ancora più respiro e spazio nelle successive dieci tracce che hanno formato l’album. Le due release le percepisco collegate tra loro ed anche le copertine sottolineano questo legame, mettendo in mostra sempre una figura in una posizione atletica in resistenza.
Un aspetto che rende interessante Sequoyah Tiger è l’ossimoro che esiste tra una produzione musicale stratificata e ricca di rimandi e influenze sonore, e un live-show minimale, che sul palco ti vede protagonista insieme ad una strumentazione leggerissima e una ballerina (Sonia Brunelli, con cui Leila condivide il progetto performativo “Barokthegreat”, ndr). Tutto questo ha un significato particolare?
Hai colto un aspetto in cui ci rispecchiamo perfettamente, quello di agire tra qualcosa di reso all’osso e il suo opposto, una dimensione stratificata.
Nella ricerca aperta in passato con Barokthegreat abbiamo riconosciuto questo nostro carattere di tensione tra gli opposti, e lo riportiamo anche in Sequoyah Tiger. L’assetto del live è essenziale ed è costruito sulle potenzialità fisiche della composizione di ogni elemento: oltre alla ricca dimensione musicale si aprono dimensioni emotive, statuarie, geometriche, animalesche, simboliche e sequenze footwork. I corpi ed il suono passano da una dimensione all’altra, dinamica che conduce ad un’apertura dei sensi percettivi.
Il tuo live è molto fisico, molto più di una normale esibizione di un producer di musica elettronica. Eppure le tue movenze sul palco ricordano vagamente quelle di un robot. C’è un discorso sul corpo (o sul corpo dell’artista) o sul ruolo delle macchine in quello che fa Sequoyah Tiger durante i suoi live?
C’è un discorso prima sul suono e poi sul corpo in Sequoyah Tiger. Nel concerto penso solo all’interpretazione del suono del canto. Il movimento del corpo si rivela in modo naturale come estensione dello sforzo vocale. Con la spinta vocale assecondo la fisicità del corpo. Il robot che hai percepito è forse il risultato di alcuni rallentamenti, frenate di spostamenti e attriti in cui mi ritrovo per far aderire il corpo alla voce. In questi momenti si intensifica la presenza e può capitare di perdere umanità.
Forse è una cosa che succede solo a me ma te la chiedo lo stesso: nei tuoi pezzi sento sempre una pulsione pop mai compiuta del tutto. Non è una cosa negativa, anzi, dona ai brani un’indomabile dinamicità, perché vivono di un dinamismo che non si esaurisce mai. È un effetto voluto? E anche: tu quanto ti senti un’artista che fa musica “pop”?
Se penso alla grammatica musicael di Sequoyah Tiger direi che nel pop ci sguazza. La mia sperimentazione è quella di spingere a fondo le leve classiche ed attraverso la composizione e la produzione del suono cerco di far precipitare i pezzi in zone inaspettate.
Hai mai pensato di scrivere pezzi in italiano? In alcuni casi il cambio di lingua ha svoltato la carriera della band o dell’artista. Che tu voglia o non voglia, ci spieghi il perché?
Solo una volta mi è capitato di scrivere una canzone in italiano ed è stato anche bello. L’inglese rimane comunque la lingua giusta per questo progetto perché quella per me più naturale, inoltre nell’usare l’inglese mi sento straniera e questa sensazione mi permette di non stringere a fondo il significato delle parole e delle frasi e concentrarmi sul loro suono.
Tempo fa mi è giunta voce che Luca Albino (aka Capibara) ti stesse cercando. C’è qualcosa che bolle in pentola?
Mi ha contattato per un progetto legato alla sua etichetta ma niente in pentola!
In che direzione hai intenzione di evolverti musicalmente? Mi spiego meglio: sai dirci già ora come ti sentiremo suonare nel prossimo disco?
Ora siamo completamente immerse nel live e ci aspettano date in giro per l’Italia. Un nuovo disco è una prospettiva lontana ma a dire la verità non vedo l’ora di iniziare per scoprire che direzioni prendere!
Se ti interessa, “Parabolabandit” lo trovi qui.
(Enrico Stradi)