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Decisamente una storia particolare, quella di Archy Marshall. Enfant prodige della musica, pubblica a soli 19 anni il primo disco sotto lo pseudonimo King Krule, che gli vale il plauso della critica e la curiosità del pubblico in tutto il mondo.
Risultato decisamente meritato, verrebbe da dire, per la raffinatezza dei pezzi proposti da un artista così giovane, con uno spettro di generi dal jazz, al trip hop e qualche vago accenno punk.
Dopo la promozione del disco, cominciamo a vedere King Krule sparire dai radar per un po’, spuntando saltuariamente con altri pseudonimi: Edgar The Beatmaker, THE RETURN OF PIMP SHRIMP, ed un progetto multimediale a nome Archy Marshall prodotto insieme al fratello Jack.
Il nome King Krule lo rivediamo dopo una lunga attesa annunciato nel programma del Primavera Sound di quest’anno, annuncio che portava in dote la certezza del nuovo, attesissimo, album del giovane londinese. Che è arrivato, dopo essersi fatto aspettare per due terzi del 2017.
The Ooz, uscito il 13 Ottobre, 4 anni dopo il debutto, è sicuramente un disco à la King Krule. In questi anni chiunque è riuscito a studiarsi la musica di Archy, i suoi pregi, i suoi limiti, e ha riconfermato le proprie certezze dopo i primi secondi dell’album. Ma, a dirla tutta, si poteva sperare che in questa quattro anni il discorso evolvesse un po’ di più.
I pezzi sono ovviamente ben scritti, con una particolare cura dei suoni, dei bei testi che parlano di alienazione, presammale e dei luoghi in cui Archy vive ed è cresciuto, e nonostante la lunghezza (1 ora e 6 minuti) non è un’impresa impossibile lasciarsi cullare dal vocione di King Krule per tutta la durata del disco.
Il problema sta alla base: pompare di hype fenomeni del genere porta ad una percezione falsata di un prodotto da parte del pubblico. Ma qual’è la verità, c’è vita oltre agli endorsment di Pitchfork?
Sicuramente sono presenti diversi pezzi interessanti, riconoscibili, di quelli che aiutano a creare un immaginario: dalla traccia d’apertura ‘Biscuit Town’, ai singoli ‘Dum Surfer’ e ‘Czech One’ o ancora la deliziosa ballata jazz ‘Logos’, ma sono comunque una manciata di pezzi in un disco di più di un’ora.
Non essendo certamente l’obiettivo di Archy creare un contorno riempitivo a singoli di successo, prima di tutto mi chiedo perchè così tante tracce in un disco solo, che mantiene sì una bella narrazione e un buon livello di qualità ma che risulta a tratti una palude, un luogo della mente dai ritmi rallentati, quegli scalini dove il sabato sera ascolti lo spleen di un amico ubriaco e particolarmente bravo a vendere le sue storie come interessanti.
Insomma, Archy, odi et amo. Ti amo perchè hai portato quello stile hip hop chill/jazzy a livelli altissimi, perchè non te ne frega niente delle categorie, perchè nonostante il fatto che hai gli occhi del mondo addosso fai le cose come vuoi te, ti prendi i tuoi tempi. Ti odio perchè ho passato ogni giorno da quel dannato annuncio del Primavera ad aspettare che THE OOZ fosse fuori, che fosse uno di quei dischi che cambiano radicalmente la vita di un artista, e magari anche dell’ascoltatore, ed invece no, nonostante i toni salvifici della testate musicali fighette da una parte all’altra dell’Oceano.
E quindi niente, continuiamo così. Continuerò sempre a dire che sei il migliore in occasioni mondane per pigrizia, continuerò ad ascoltare i tuoi (bei) pezzi vecchi e nuovi, i tuoi beat, leggere le tue poesie, ma decidi da che parte stare, o nell’olimpo dei songwriter o tra le legioni di artisti interessanti. Stare a metà è solo controproducente, sia per le tue produzioni che per noi, povero pubblico.
74/100
(Matteo Mannocci)