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JuJu è il nuovo progetto musicale di Gioele Valenti, già conosciuto come Herself e per il progetto Lay Llamas in condivisione con Nicola Giunta. Dopo la pubblicazione del primo LP nel corso dell’anno 2016, la seconda pubblicazione di Gioele a nome JuJu è uscita lo scorso 22 settembre via Fuzz Club Records. Il disco si intitola “Our Mother Was A Plant” ed è senza dubbio una delle pubblicazioni più interessanti per quello che riguarda il genere psichedelico nel corso dell’anno 2017. Un progetto di larghe vedute non solo sul piano musicale, ma anche sul piano puramente ideologico e anche semplicemente ‘geografico’, JuJu si sviluppa per quelle che sono le sonorità attorno ad influenze come afrobeat, drone, krautrock e wave music. Il risultato finale è un disco particolarmente originale e che mescola assieme passato e presente.
In occasione della pubblicazione di “Our Mother Was A Plant” e per parlare in generale del suo progetto musicale attuale e delle sue prospettive future, abbiamo rivolto a Gioele cinque ‘corpose’ domande che vi proponiamo di seguito, ringraziandolo ancora una volta per la disponibilità e la cortesia dimostrata e rinnovando i complimenti per il su lavoro.
1. Ciao Gioele. Grazie mille per averci concesso questa intervista. Se non ti dispiace comincerei dal tuo nuovo progetto (Ndr. JuJu.) e da quelle che sono le basi concettuali e le premesse che ne stanno alla base. Tu stesso hai scritto che (correggimi se sbaglio) “JuJu racconta la storia di quello che è esodo destinato a concludersi la maggior parte delle volte come una sconfitta totale per l’umanità.” Come possiamo definire questo ‘esodo’ cui fai riferimento? Lo consideri relativamente una dimensione fisica o spirituale? Di conseguenza quale messaggio quindi intendi trasmettere con questo progetto musicale? La sensazione è che ci sia da una parte l’attenzione a dei contenuti relativi quelli che sono avvenimenti diciamo di ‘cronaca’ ma anche fatti storici, oltre che la volontà di spingersi al di là dei nostri confini e abbracciare quelle che possono essere diverse culture non solo sul piano strettamente musicale.
Gioele: Penso che l’artista svolga un’attività politica in senso lato. Agisce nella società, e dunque ogni atto artistico è in qualche modo atto politico, si sa. Non c’è un particolare messaggio dietro a JuJu, inteso in senso morale, bensì forse la denuncia di un Tempo, che non è necessariamente storico, ma una sincope diacronica. L’emigrazione di corpi, anime, segni e miti è una condizione umana prima ancora che evento storico. Nasce nel cervello, è nel DNA, fin dalla preistoria in cui i primi africani ‘migrarono’ per dar forma all’umanità, lo stesso consesso umano che ora tratta l’Africa come pattume. Parlerei piuttosto di una dimensione migratoria che tenta d’elevarsi, in questo particolare caso, ad una dimensione estetica, metastorica. Certo, da siciliano ho vissuto e vivo questo periodo con un certo patema d’animo, cronachisticamente parlando. La morte per deriva, annegamento, indifferenza e povertà, è reale, dolorosa. Ma non avendo soluzioni semplicistiche, da artista, non posso far altro che puntare un focus, tratteggiare la fotografia raggelante del momento. Non molto altro.
2. Sicuramente le sonorità che proponi con questo nuovo progetto sono differenti rispetto alle esperienze passate. Mi riferisco al progetto Herself e ai Lay Llamas, che era un progetto nel quale collaboravi con Nicola Giunta e che ottenne anche un certo riscontro con la pubblicazione di “Ostro” su Rocket Recordings. Quanto di queste precedenti esperienze c’è in JuJu. Mi riferisco sia alle sonorità che a quello che può essere il tuo percorso personale come uomo e come musicista (ammesso vi sia una separazione tra le due cose).
Gioele: Non c’è una reale cesura tra le esperienze che hai citato. In Lay Llamas portavo la mia attitudine al pop e alla visionarietà lirica già da molti anni implosi in Herself. E Ostro nasceva da presupposti e sensibilità, miei e di Nicola, diversi, per la costituzione di un unicuum. E così mi son portato dentro JuJu, quello che ero prima e quello che sono stato dopo. E’ una linea di sangue. Con JuJu ho per certi versi rimodulato ed espanso quello che in nuce era già lì e che avevo urgenza di dire in un modo diverso e più articolato.
3. Parlando in particolare del tuo ultimo disco, ‘Our Mother Was A Plant’, vi ho colto al suo interno riferimenti a esperienze musicali diverse e slegate da certi canoni predefiniti della musica neo-psichedelica. In particolare ho pensato a riferimenti alla black music e situazioni che rimandano a realtà tipo Sly Stone & The Family Band oppure ai Parlament/Funkadelic. Volevo chiederti se c’era effettivamente la volontà di recuperare dei contenuti musicali di questo tipo e se senti una certa affinità con i lavori di gruppi come i Goat e in particolare con un progetto come Tau di Shaun Nunutzi, che forse guardando a altre sonorità e altre situazioni proprio sul piano geografico, si è comunque proposto di fare un lavoro che fosse in qualche maniera oltre che carico di contenuti di natura psichedelica, pure orientato verso quella che definiamo ‘world music’ ma che poi sarebbe il riprendere determinate sensazioni e sfumature di culture, paesi, luoghi.
Gioele: Viviamo in un mondo triste, di uomini lupi ad altri uomini. Il recupero di una sensibilità ‘world’ credo sia un bene. Personalmente pur essendo riconosciuto come appartenente ad una certa neo-psichedelia di stampo anglosassone, non mi curo molto dei generi o di occhieggiare ad un trend, la psichedelia è una vocazione e non una questione di paradigmi stilistici. Tutto viene appiattito da una tendenza al consenso spettacolare ormai, una tunnel vision fatta di Ilike. Io sono un compositore rock, stop. Certo, la mia esperienza di supporto (e di amicizia) con band come i Goat hanno giocato un ruolo bello grosso nella musica di JuJu, se non altro in termini di assorbimento, metabolizzazione di una particolare bellezza e sensibilità estetiche. Aver girato con loro per più di un mese, in tour diversi, bé, credo mi abbia aiutato ad uscir fuori da me stesso, e da un periodo drammatico. Sono una fonte di ispirazione certamente, e la collaborazione col mio amico Capra Informis (djembé-man dei Goat) ne è testimonianza, ma non posso annoverarli tra le mie influenze di sempre. Piuttosto mi rifaccio a cose eterogenee, da Captain Beefheart a Billy Idol, da Tom Waits a Motley Crue, da Joy Division a I Love You But I’ve Chosen Darkness, da Pink Floyd a Mike Scott e Tom Petty e Jim O’Rourke, ma potrei continuare all’infinito, passando per l’Heavy Metal e la musica caraibica nonché la Motown. Il recupero di una certa black music, certo mi serve per veicolare un disegno complessivo, e una sensibilità antirazzista, antispecista, neopagana, dunque le band che hai citato ci stanno tutte, ma non come mera influenza musicale, bensì per il recupero di un’aria, come dire, di ‘famiglia’.
4. Sempre con riferimento a “Our Mother Was A Plant” ti faccio qualche domanda per quello che ha riguardato i processi di composizione e successivamente il lavoro in studio. Si tratta di qualche cosa a cui hai lavorato completamente da solo? Com’è nata la partnership con la Fuzz Club Records? Ti senti in qualche maniera parte di una specie di ‘movimento’, considerando peraltro che l’etichetta produce oppure ha prodotto in passato anche altri gruppi italiani come i Sonic Jesus, i Throw Down Bones, i Gluts…? Hai qualche progetto in cantiere per il prossimo futuro?
Gioele: La legge che mi anima da più di 15 anni, fin dai primi dischi di Herself, è la totale autarchia estetico-compositiva. Sì, faccio tutto da solo e suono tutto da me, dalla scrittura alla registrazione, al missaggio. Dal vivo ho invece un fidato team di musicisti con i quali si traduce il lavoro di JuJu in una dimensione live, e mi fa piacere citarli, Simone Sfameli, Marco Monterosso, Vincenzo Schillaci e Rodan Di Maria, tutta gente dell’underground palermitano, con anni d’esperienza sulle spalle.
Venendo da Rocket Recordings m’è venuto piuttosto semplice pensare alla Fuzz Club come contigua esperienza per le mie produzioni. Abbiamo una visione comune, e sapevo per certo che avevano apprezzato il debutto di JuJu. Sono etichette che si aiutano tra di loro, fanno team. Una cosa in famiglia, anche questa. In quache modo mi sento dentro un movimento, certamente, e mi piacciono le altre band del roster, così come mi sento vicino ad amici come i Julie’s Haircut e Las Cobras. Non mi sono mai sentito un musicista ‘italiano’ in senso stretto, poiché i miei referenti artistici son sempre stati universali. Il cerchio s’è chiuso, quando appunto gli inglesi si sono interessati alla mia musica. Tutto si tiene. Ho molto altro in cantiere, certamente, ma penso a troppe cose contemporaneamente, e forse è meglio che mi dia una calmata.
5. Posso sbagliare, ma considero JuJu come un progetto chiaramente orientato al futuro. Nel senso che penso di poter dire che guarda alla storia passata e si pone in maniera critica al tempo presente proponendosi non solo di ricordare solennemente in particolare tutti quelli che definisci “the forgotten of the sea”, ma anche di guardare al tempo futuro. È una domanda sicuramente complessa e con la quale mi propongo di andare un attimo oltre un discorso esclusivamente musicale. Non ti chiedo naturalmente sul piano pratico come pensi di risolvere la annosa questione dei migranti nello specifico, ma che cosa ci puoi dire per quella che è la realtà da dove provieni e quella che consideri la sua situazione in questo particolare momento anche sul piano proprio culturale prima che economico e sociale anche nel senso di apertura mentale verso nuovi orizzonti e realtà che poi geograficamente e storicamente non sono poi così lontane dalla nostra.
Gioele: Non ho risposte precise. In un mondo in cui le teste rotolano e i politici fanno affari sul corpo sociale, ma anche sul corpo soggettivo fragile e corruttibile delle persone, preoccuparsi della cultura, in senso stretto, specifico, può anche essere un lusso che non possiamo permetterci. Cosa vuoi che conti un disco, che è veicolo della supponenza occidentale, mera funzione matematica della ricchezza, di fronte ad un bambino che muore di fame o per mare, o di fronte a donne stuprate da uomini che macellano animali e loro simili? Ma visto da un punto di vista non fideistico, bensì tecnico-pratico, la cultura reale, l’abbraccio tra le persone, può anch’essa essere un argine ai totalitarismi capitalistici. Cospirare contro il potere costituito, contro il familismo affaristico, contro i tecnocrati, è un dovere più che mai. Da siciliano, bè, siamo oltre le macerie, siamo ai fumi postbellici. Alla fine però ho sempre rivendicato il primato estetico su quello politico, e la bellezza è ancora presente nell’Isola (come nel Sud Italia, in genere), nonostante il fatto che l’Europa e l’Italia continuino a prenderci a calci in culo, nella strafottenza generale e istituzionale. Intravedo un sentore di Fenice, però, e c’è di certo un cambiamento in atto. Quali siano però le immediate ricadute di questa cosa, non so vederle. La luce fuori dal tunnel può sempre essere un treno, watch out!
Ndr. Fotografie di Marzia Falcone.
(Emiliano D’Aniello)