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Puntualmente, la radio nazionale canadese CBC stila (come tutti quanti) una classifica dei migliori dell’anno ma la sua specificità è che si limita agli artisti col passaporto canadese. Il punto è che ogni volta vien fuori una lista che è quasi un elenco dei migliori album in senso ‘assoluto’ e non locale. Come dire, la delimitazione territoriale non abbassa troppo il livello se quel territorio è il Canada. Quest’anno, invece, grande delusione. La lista è cortissima (17 posizioni), il profilo tenuto è piuttosto basso e tra le tante assenze manca anche Ken.
Il discorso della classifica è solo lo spunto per ribadire che l’album dei Destroyer numero 12 (il calcolo è un po’ controverso) è un disco abbastanza sorprendente e non privo di coraggio. Descrive un ulteriore sviluppo nella storia di Dan Bejar (l’uomo dietro e davanti al nome Destroyer) e va a posizionarsi in modo riconoscibile nella sezione anni ’10 della sua discografia. Il lavoro si allontana dal pop classicista di “Poison Season” come dall’atmosfera sublime di “Kaputt”. Se “Poison Season” era un po’ intimismo e un po’ sussulti swingati a base di piano, archi e fiati, “Ken” è meccanica e squadrata poesia. Se “Kaputt” era l’approccio modernista di Bejar con lo smalto dream pop, le chitarre un po’ contemporanee e una padronanza da yacht rock, “Ken” è invece asciutto, potente e diversamente giovane.
Sa di New Order, diciamolo chiaro. Sembra di vedere il santino di Peter Hook da una parte, così come il poster di “Pornography” dall’altra. Questa volta la partita si disputa tra Manchester e Londra con riferimenti temporali espliciti. Quando le tastiere sovrastano tutto è anche per mano di Joshua Wells dei Black Mountain alla produzione. Ovviamente ci sono anche episodi che rimandano al tipo di canzone che i Destroyer praticano da tempo. Così come la bella “La règle du jeu” allarga un po’ il fuoco riecheggiando nell’attacco i recenti Radio Dept. In generale, comunque, il disco è molto coeso. Coeso nel contrasto tra la cerchiatura ferrea della sezione ritmica e quel consueto cantato che sbanda sempre senza deragliare mai. Il cantato di Bejar fa pensare al tizio sarcastico che ti potrebbe far sfigurare con gli amici ma nella sostanza poi dice le cose più intelligenti e ‘nere’ di tutti. E poi alla fine ti ringraziano per averlo portato. “Tinseltown Swimming In Blood” è Destroyer al 100% su un impianto che non ha quasi niente della produzione passata. C’è poco anche del lavoro che il canadese ha sin qui fatto con i New Pornographers, salvo involontariamente condividere qualcosa con il loro ultimo Whiteout Conditions (in cui Bejar è assente).
In una bella intervista su Vulture, Bejar fa un discorso interessante su lui che riprende in mano a quarantacinque anni quei dischi degli ’80 che non ascoltava più da una vita, dai Cure fino agli House Of Love. Evidentemente accantonati perché magari li ha apprezzati ma non amati visceralmente. Accantonati, ammette, anche perché troppo associati all’adolescenza, intesa come la propria e forse non solo. Curioso poiché le adolescenze delle decadi successive hanno attinto da quegli ascolti anche per svincolarsi meglio dai riferimenti adolescenziali a loro più contemporanei, a volte svilenti. E questo vale ovunque. D’altronde, se dio vuole è concesso a individui di ogni età asserire dalla collina di Fiesole che ‘là sotto, un tempo era tutta new wave’. Fatto sta che il leader dei Destroyer me lo vedo a far girare sul piatto una cosa che potrebbe essere Brotherhood (per dire) e a non ritrovarci solo i suoi anni verdi ma anche qualcos’altro. Qualcosa che evidentemente oggi gli somiglia. O assomiglia abbastanza al mondo che osserva adesso. E così, forte di questa storia un po’ al contrario, ha inoculato in Ken gli anticorpi che lo proteggono da un polveroso effetto nostalgia. Un album così agganciato a binari post punk e new wave che non suona nostalgico è una notizia. Questo consideriamolo.
72/100
(Marco Bachini)