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Le classifiche di fine anno mi sono sempre piaciute: chiudono un cerchio, tirano le somme, celebrano momenti e ricordi.
Il 2017 è stato probabilmente l’anno più denso della mia vita: da febbraio abito finalmente insieme alla mia ragazza in un trilocale che si arricchisce di un componente d’arredo al mese conseguentemente al nostro estratto conto, ho aperto la Partita Iva e non vedo già l’ora di chiuderla, ho iniziato a viaggiare in treno e ho scoperto che mi piace quasi quanto la macchina, ho un nuovo lavoro con più responsabilità e dosi di stress da digerire, ho organizzato pure una manciata di concerti di cui vado fierissimo. Piccole cose grandi del diventare adulti. Insomma, mi sento una persona cresciuta rispetto a dodici mesi fa, e molto più di soli dodici mesi. Ma – lo scrivo e mi scappa un sorriso – sono molto, molto soddisfatto di come mi stanno andando le cose.
Questa qui sotto è la colonna sonora del mio 2017.
I DISCHI
Kelly Lee Owens – Kelly Lee Owens
Un esordio folgorante, che mi ha conquistato fin dal primo istante e che ancora oggi continua a sorprendermi. Non tanto perché la giovane producer cresciuta a pane e Fabric londinese si sia inventata qualcosa di nuovo, ma piuttosto perché sia riuscita a confezionare un album di musica elettronica perfetto da ogni punto di vista: l’attitudine derivativa che è il segno dei nostri tempi, la freschezza nel rimescolare canoni musicali sparsi, la personalità tanto delicata quanto incisiva nel costruire uno stile già riconoscibile a partire dal suo esordio discografico. Un disco che oscilla lisergico tra minimalismo nordico e calde sinuosità\, tra dance e trip-hop, tra elettronica e pop: il primo posto non poteva che essere suo.
Fever Ray – Plunge
Un album perfetto. “Plunge” è forse il disco che ho ascoltato di più, nonostante sia uscito da pochi mesi. Anzi, se non fosse per l’esordio d’oro di Kelly Lee Owens, Fever Ray si sarebbe guadagnata il primo posto. Pulsante, energico, potente, illuminante: l’opera di un’artista non solo attenta alle tendenze musicali, ma capace anche di assimilarle e renderle parte di un sound sempre capace di conservare peculiarità nel suo continuo processo di evoluzione. Gelide intemperie artiche e fiamme elettroniche si fondono in una danza tribale post-esotica, che ci ammalia e disorienta.
BICEP – Bicep
Probabilmente ho esagerato a piazzare questo disco dei Bicep al terzo posto, ma diciamo che l’ho messo qui per ricordarmi in futuro di quanto mi piacque. Elettronica asettica, con i piedi ben saldi nel sound rave inglese degli anni ‘90, melodie fredde che si riscaldano solo a tratti: l’esordio del duo di Belfast è una piccola, luminosa gemma che ha accompagnato i numerosi miei viaggi sui treni regionali.
Godspeed You! Black Emperor – Luciferan Towers
Del non sbagliare mai un disco. Nell’anno in cui sono rimasto deluso, più o meno gravemente, da altri capisaldi della mia cultura musicale, i Godspeed You! Black Emperor si dimostrano una colonna portante di come io personalmente penso la musica. E cioè: grandiosa, pensata, catartica, solenne, politica. Anche con “Luciferan Towers” i nostri ci stritolano il cuore e il fegato, ed è sempre una sensazione meravigliosa.
The War On Drugs – A Deeper Understanding
Del non sbagliare mai un disco, seconda parte. Qui poi non c’è solo la conferma dell’aver maturato lo status di grande band in grado di produrre grandi dischi, ma “A Deeper Understanding” segna come dice il titolo anche quel momento in cui Granduciel e soci si rendono conto di aver forgiato un loro suono che – sì è derivativo e in debito con i grandi nomi della tradizione americana – non è stato mai tanto autentico come ora. In alto i cuori.
Timber Timbre – Sincerely, Secret Pollution
Non so per quanti altri, ma per me “Sincerely, Secret Pollution” è a tutti gli effetti un album politico. Probabilmente il miglior album politico del 2017. È politico nei suoi racconti di scabrosa umanità, è politico nella scelta ossimorica di metterli in musica con melodie a tratti distese e a tratti anguste: perchè il mondo che viviamo è un caos incontrollabile, e il rifugio che troviamo nella morbidezza degli affetti e dei momenti felici è già di per sé una grande, salvifica conquista.
Xiu Xiu – Forget
Una dimostrazione di forza che nessuno si aspettava. Muscoli favolosi, ancora oggi, dopo anni passati a sguazzare nelle fogne della sperimentazione. La fortuna di averli visti all’opera dal vivo, nella piazzetta del paese di casa, ha consolidato il mio pensiero sugli Xiu Xiu: questi sono artisti veri e “Forget” ne è la prova. Ispirato, urlato, rumoroso, sussurrato, umorale, schizofrenico ma soprattutto sincero.
Alessandro Cortini – Avanti
L’ultimo album di Alessandro Cortini, per come l’ho capito io, è un viaggio. Non porta da nessuna parte, inizia e finisce nello stesso punto. Scava nei suoi ricordi d’infanzia, li dilata e li scalda, e noi ci sentiamo ospiti grati ad assaporarne il candore, l’umanità, l’affetto. Commovente.
Charlotte Gainsbourg – Rest
Non so se ascolterò così tanto questo disco nei prossimi anni, ma per ora va così. Charlotte Gainsbourg è una delle sorprese musicali di questo 2017, almeno per quello che mi riguarda. Prodotto finemente e con ottime intuizioni nella composizione delle melodie, “Rest” è la testimonianza (forse effimera, chissà) di uno stato di forma quanto mai ispirato. Sarà che da molto ormai Charlotte non è più una ragazzina, saranno le sapienti collaborazioni presenti nel disco, fatto sta che questo disco esprime una classe cristallina nel confezionare un sound pop contemporaneo e mai banale.
Loyle Carner – Yesterday’s Gone
Doveva arrivare il momento in cui inserivo un disco hip hop nella mia classifica di fine anno, e infatti è arrivato. Tolti i grandissimi nomi che hanno già fatto la storia ma che non mi rappresentano, ecco Loyle Carner. Il ragazzo sì rappa, ma dietro (o dentro?) di sé ha un’orchestra enorme, in grado di spaziare dal gospel al soul, dal jazz alla black music: la fusione dei due sound è incredibile, dolce nei toni e genuina nei modi, e finisce per coinvolgere anche un ascoltatore “straniero” come me. Non mettere “Yesterday’s Gone” tra i primi dieci album dell’anno sarebbe una di quelle imposizioni da purista che non ho più voglia di fare.
UN SACCO DI ALTRI DISCHI
Fuori dalla top 10 c’è ovviamente un sacco di roba, che elenco in ordine sparso. L’ennesima conferma di Jefre-Cantu Ledesma e del suo suono tutto chitarra e riverberi emotivi, che in “On The Echoing Green” ho preferito addirittura di più dei precedenti. Se si parla di roba emotiva non posso non citare anche Big Thief, Aldous Harding e Brand New: i primi due nomi sono entrambi ottimi esordi, l’ultimo un’insperata sorpresa prima dell’addio. Pure Eric Copeland e John Maus si conquistano un posto tra le citazioni: il primo a prescindere, anche se “Goofballs” è davvero divertente, il secondo con quel suo disco pazzerello che è “Screen Memories. E se si parla di pazzerelli come non citare forse i due album più buffi dell’anno, ovvero “50 Songs Memoir” dei The Magnetic Fields ma soprattutto “Forced Witness” di Alex Cameron ? Una specie di trattato di sociologia spiccia sulla socialità marcia degli States, cantato e suonato come delle ballatone anni ’80. Dalle finte morbidezze infine alle cose ruvide: tra le menzioni ci finiscono pure “Hesaitix” di M.E.S.H., “World Eater” di Black Mass e “Relatives in Descendent” dei Protomartyr.
GLI ITALIANI
Alessandro Cortini l’ho già citato tra i migliori dieci, ma qui voglio mettere in lista anche altre uscite italiane. Ne scelgo cinque, accomunate solo dal fatto di essere sideralmente distanti da quel suono electro-gonzo-pop-coatto che sta andando di moda in Italia, e risparmio i nomi perchè vi voglio bene. Perciò, prima tra tutti Sequoyah Tiger, che con il suo primo LP “Parabolabandit” ha confermato le buonissime impressioni del precedente EP “Ta-Ta-Ta-Time”: fenomenale, sia su disco che live. Sul versante elettronico si merita un posto sul podio italico anche Not Waving con “Good Luck”, un lavoro davvero ispirato che non lascia spazio a riempitivi: cassa dritta e pedalare. Cambiando mood, ci tengo ad inserire nella lista anche allo sbilenchissimo indie-rock dei Solki (fan dei Blue Willa gioite con me!) e agli inossidabili Julie’s Haircut, che con “Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin” si confermano ancora ad altissimi livelli di composizione, produzione e resa live – come se ce ne fosse poi bisogno.
PEZZO DELL’ANNO
Liberato, “Tu T’E Scurdat’ ‘E Me”. Senza se e senza ma. Un progetto perfetto sotto tutti i punti di vista: estetico, perchè attinge a piene mani dalla tradizione, la esalta, e la innova; musicale, perchè è il miglior pop che si sente in Italia da chissà quanti anni; artistico, perchè ad essere protagonista sono le canzoni, cioè il prodotto, e non un volto; politico, perchè ha fregato tutti gli ascoltatori scettici tra i quali mi ci metto, che si sono arresi dopo due giri di loop; mediatico, perchè spero resterà una cosa estemporanea, effimera e senza volto.
STRADICONSIGLIA
Centodieci brani, più di 8 ore di musica. Tutto quello scritto finora, anzi di più.
FOTO DELL’ANNO
Casa Stradosetti
Prima avevamo un gatto, ora tre
L’ultimo concerto che ho avuto il piacere di organizzare: gli Happyness che chiudono la stagione 2016/2017 di Arci Dude
L’ultima sera dell’edizione numero undici di Arti Vive Festival
Archivio
2016 – Enrico Stradi Awards (winner: Car Seat Headrest, “Teens Of Denial”)
2015 – Enrico Stradi Awards (winner: Sufjan Stevens, “Carrie & Lowell”)
2014 – Enrico Stradi Awards (winner: The War On Drugs, “Lost In The Dream”)
2013 – Enrico Stradi Awards (winner: Disclosure, “Settle”)
2012 – Enrico Stradi Awards (winner: Alt-j, “An Awesome Wave”)