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Arrivo al Locomotiv come sempre in ritardo mostruoso. Per fortuna, malgrado sia un mercoledì sera, alle 22:40 siamo ancora in pieno cambio palco e quindi faccio in tempo a mollare il cappotto al guardaroba, prendere una birra e raggiungere Arturo a poche file dal palco.
Ho il biglietto da mesi. Aspetto questa data da quella dello Psych Fest di Liverpool di un paio d’anni fa, persa per un’avventura molto più psych di qualunque band mai vista, ma questa è un’altra storia…
Non siamo al sold out (che ormai pare lo facciano solo nomi giganti o gruppi e cantanti che definisco serenamente e coscientemente inascoltabili) ma di gente ce n’è. Non ci sono ragazzini. Prima mia previsione ribaltata: malgrado le atmosfere alla Stranger Things, malgrado si rivedano in giro jeans a vita alta, cappotti cammello e spalline e permanenti il pubblico è mediamente grandicello. Gente, insomma che segue i The Horrors dagli esordi, pochi innamoramenti modaioli.
Non conosco molto l’ultimo disco, lo ammetto: sono qui per sentire pezzi che hanno almeno dieci anni e quando attaccano “Hologram” non mi scompongo più di tanto. Tanti anni ottanta, un po’ di Moroder, tanta moda e posa. Le paillettes di Faris Badwan sberluccicano mentre Rhys Webb, maglia a collo alto e blazer nero, gioca con le sue tastiere. Così per il secondo pezzo “Machine” che però mi avvicina a quello che dagli Horrors mi aspetto: un basso suonato come un pezzo di lamiera, tastiere rarefatte e schitarrate shoegaze. E arriva “Who can say” e con lei sono di nuovo un fan che guarda la band malaticcia e potente di cui mi ero innamorato un lustro buono fa.
Finalmente “Mirror’s Image” e siamo nel 2009 e la band c’è, Faris di voce non ne ha mai avuta un granchè, ma quello che basta per star bene sul basso di Tom Furse che è lo strumento della band, del dark, della new wave. E allora viene voglia di muoversi e così è per “Sea Within A Sea”.
Altra serie di pezzi, gli spazi sono larghi fra la gente, più di quanto vorrei ad un concerto così al Locomotiv a Bologna, ma, d’altro canto, settimana scorsa il Fabrique a Milano era chiuso a metà per quanto pochi eravamo a vedere i B.R.M.C. e anche lì io avevo preso i biglietti sei mesi fa, certo di un pienone.
Breve pausa dopo una splendida “Still Life”. La gente, applaude, rumoreggia. C’è un bel clima.
La band torna sul palco e l’atmosfera è molto più calda: parte “Ghost”, pezzo lento e oscuro dall’ultimo album e poi si chiude con il singolone “Something to Remeber Me By” e quasi si balla sulle note di nuovo della colonna sonora di Stranger Things o Dark, che Netflix ha capito cosa va e ce lo regala a secchiate, e di nuovo sono spalline e occhiali dalla montatura grossa e dorata.
Insomma questo concerto? Bello. Loro sono una band che merita d’essere vista. Non abbastanza di moda e non più troppo sul pezzo, va bene. Non sono sexy come i B.R.M.C, né cattivi come gli Idles, ma suonano, sanno quello che fanno e mi hanno regalato una bella serata. Tanta roba, purtroppo vien quasi da dire, nel 2017 in Italia.
(Report di Fabio Rodda, foto di Chiara Viola Donati)