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Mentre anche l’Italia sembra finalmente aprirsi, non senza fatica, alle nuove tendenze musicali mettendosi in linea e in connessione con quanto succede nelle aree musicalmente più influenti del mondo, anche la nostra classifica di fine anno più attesa sembra rispecchiare questa eterogeneità.
Per la prima volta nella storia di Kalporz, svetta al primo posto, un album di genere, ascrivibile a un genere che fino a qualche anno fa non trovava nemmeno spazio su queste pagine. E anche nel resto della classifica, tra pop, R&B, elettronica, nostalgie punk e indie rock, vecchi ritorni di fiamma e nuovi amori, non mancheranno nomi che probabilmente vi lasceranno straniti o, speriamo, finiranno per sorprendervi.
L’apertura alle novità resta sempre la stessa.
20. EERA, “Reflection Of Youth”
(Ninja Tune)
La norvegese adottata da Londra viaggia tra confessioni intime elettriche ed aperture oniriche, in un modo sincero e senza sconti. Sono canzoni indolenti, ma forse non è poi vero che viviamo in un mondo anestetizzato?
19. VINCE STAPLES, “Big Fish Theory”
(Def Jam Recordings)
A soli 24 anni il rapper californiano è uno dei migliori talenti della sua generazione. Un flow inconfondibile, un mood mai ruffiano o smaccatamente adagiato sulle ultime tendenze per un secondo album dove arricchisce in senso più compiuto quelle basi scarne e minimali che ne avevano caratterizzato gli esordi. In produzione un team d’eccezione: Justin Vernon (Bon Iver), Zack Sekoff, Sophie, Ray Brady, Jimmy Edgar, GTA e Flume. Non mancano nemmeno i guest vocali, da Kendrick Lamar a Ty Dolla $ign passando per Damon Albarn e A$AP Rocky.
18. LORDE, “Melodrama”
(Republic Records)
Il pop da classifica negli ultimi anni si confonde sempre più con quello che un tempo la critica definiva un po’ e art-pop o alt-pop. Merito di giovani artiste come la ventunenne neozelandese, qui affiancata da uno dei guru di queste produzioni (Jack Antonoff dei Bleachers), protagonista di un secondo album molto orecchiabile, fresco, mai banale nelle sonorità, nemmeno nei momenti più “teen” e ricco di hit che hanno lasciato il segno, come “Perfect Places” e “Green Light”.
17. SZA, “Ctrl”
(Top Dawg Entertainment)
Nata in una delle città più afro-americane del Midwest e cresciuta sulla East Coast con un’educazione rigidamente musulmana, Solana Imani Rowe, negli ultimi tre anni è diventata una delle artiste più ricercate della scena black americana. Merito di nove singoli, un EP, due mixtape che l’hanno portata tra le braccia della prestigiosa TDE, e a comparire come guest vocale in brani di Rihanna, Kendrick Lamar, Schoolboy Q e molti altri artisti. In questo album mette al centro delle composizioni la sua voce, calda e d’annata, da erede della grande tradizione R&B. Un capolavoro soul, classico, ma a suo modo contemporaneo.
16. MURA MASA, “Mura Masa”
(Polydor Records)
Un altro artista poco più che ventenne nato su un’isola della Normandia, si è distinto nella scena britannica e internazionale, mettendo assieme pop elettronico, vibrazioni R&B e funk, in uno degli album più ballabili ed eterogenei dell’anno. Il resto lo fa varietà delle voci ospiti di questo disco d’esordio: ASAP Rocky, Charli XCX, Desiigner, Bonzai, NAO, Jamie Lidell, Damon Albarn.
15. PERFUME GENIUS, “No Shape”
(Matador Records)
Nello svilupparsi dell’album, melodie di piano minimali accompagnate dalla voce androgina di un Mike spesso in stile crooner, sono intervallate da improvvisi squarci sintetici e orchestrali e da arrangiamenti sontuosi, in cui si manifesta tutta la sua meticolosa ricerca del suono perfetto, quello che colpisce l’orecchio e la pancia di chi ascolta.
I testi non sono da meno e rimandano all’eterno contrasto fra temi esistenziali quali morte/amore, corpo/spirito, estetica/interiorità, desiderio/ rinuncia, ricordandoci che solo attraverso la contrapposizione fra i contrari può emergere quello che è il divenire, inteso come flusso continuo della vita e dell’esistenza. Il tutto non abbandonando mai l’esplicito riferimento alle questioni della gender fluidity e del diritto di auto-definizione.
14. BIG THIEF, “Capacity”
(Saddle Creep)
Adrianne Lenker è una songwriter di razza per due semplicissimi motivi; il primo è per la capicità di trasmettere emozioni attraverso testi criptici e sfocati che diventano immagini nitidissime (me lo immagino questo ghigno malefico, da squalo, da vampiro). Il secondo è perchè con i Big Thief ha dato ancora importanza al concetto di gruppo rock. Le chitarre, il basso, la batteria, la voce, i testi, i significati, le storie, le delusioni, le paure. Tutto così intenso, però senza far rumore.
13. DIRTY PROJECTORS, “Dirty Projectors”
(Domino)
“Dirty Projectors” suona come dovrebbe suonare un album pop nel 2017.
Quando buona parte delle cose che ascoltate oggi tra qualche anno suoneranno così, ricordatevi di questo disco.
E non vi sembrerà poi così strano.
12. KELELA, “Take Me Apart”
(Warp)
Una Solange androide, molto più che una FKA Twigs americana.
Grazie alla classe e al gusto di figure come Kelela, la musica contemporanea continua ad abbattere le barriere musicali tra musica per tutti e musica ricercata. Grazie a lei e ad altre figure a lei affini, il pop, di cui “Take Me Apart” è uno dei manifesti più significativi e raffinati, sta vivendo uno dei momenti più alti della sua storia.
11. BRAND NEW, “Science Fiction”
(Procrastinate! Music Traitors)
Se c’era un modo in cui ci auguravamo che i Brand New ci dicessero addio, forse quel modo è “Science Fiction”. Un album scritto, suonato e registrato per essere l’ultima testimonianza di una band che a suo modo ha segnato un’epoca e la generazione che l’ha vissuta. Catartico, in più momenti della sua durata, e commovente, soprattutto sul finale. Non potevamo chiedere di meglio.
(Enrico Stradi)
10. THE WAR ON DRUGS, “A Deeper Understanding”
(Atlantic)
C’è chi dice Springsteen, chi dice Dire Straits, e chi dice Tom Petty: la realtà è però un’altra, e cioè che Granduciel e la sua band riescono ormai a confezionare un suono che è innegabilmente derivativo ma ormai riconoscibile, una miscela in cui è difficile, e parecchio, separare gli elementi costitutivi. E se proprio si riconoscono, è difficile trovare oggigiorno chi interpreti quel suono in maniera così credibile.
9. KING KRULE, “The OOZ”
(XL Recordings)
Pezzi ben scritti, con una particolare cura dei suoni, dei bei testi che parlano di alienazione, presammale e dei luoghi in cui Archy vive ed è cresciuto, e nonostante la lunghezza (1 ora e 6 minuti) non è un’impresa impossibile lasciarsi cullare dal vocione di King Krule per tutta la durata del disco.
8. FEVER RAY, “Plunge”
(Rabid Records)
“Plunge” mette in realtà in luce l’anima costantemente ricercata e contaminata della voce del duo svedese più celebrato e influente degli anni Duemila. Registrato nel suo studio personale di Stoccolma, il secondo album di Fever Ray, è stato realizzato con collaborazioni che non possono lasciare indifferenti chi è sul pezzo rispetto alle ultime novità avant ed elettroniche: Paula Temple, Deena Abdelwahed, NÍDIA, Tami T, Peder Mannerfelt e Johannes Berglund.
7. THE NATIONAL, “Sleep Well Beast”
(4AD)
Non è l’album più a fuoco dei nostri, e nemmeno possiede elementi sorprendenti, ma è – al netto delle piccole evoluzioni di un suono più sintetico – come un buon amico che non ti lascia mai in asso. Good old stories.
6. PRIESTS, “Nothing Feels Natural”
(Sister Polygon Records)
Ci son voluti tre anni per dare alla luce uno fra i migliori album d’esordio di questo 2017. Un disco il cui carattere altamente corrosivo è frutto in realtà di una pazienza sconfinata e di un lavoro minuzioso in fase di produzione: sono state necessarie infatti due incisioni dello stesso album. Non contenti della prima, i 4 si son rimessi al lavoro, e hanno tirato fuori un disco (doppiamente prodotto, ma anche autoprodotto) che riesce a suonare genuino e fresco come pochi. A dimostrazione di come la ferma consapevolezza dei propri mezzi e il rifiuto metodico per ogni forma di compromesso alla fine pagano. Andatevi a leggere i testi, tipo l’incipit di “Puff”, ad esempio (My best friend says “I want to start a band called Burger King”/and I say “Do it, make your dreams a reality”), se volete capire un po’ cosa sia l’attitudine in un genere come il punk, che per quanto possa essere servito nelle varie salse “post”, “pre”, “new” e chi più ne ha più ne metta, ancora oggi, nel 2017, sembra essere “not dead”
5. KELLY LEE OWENS, “Kelly Lee Owens”
(Small Town Supersound)
Dance music dai contorni trance, produzioni avvolgenti e contemplative, irresistibili inserimenti di synth melodici, beat caldi, arrotondati, e ritmi che si fanno sempre più serrati. L’esordio di Kelly Lee Owens è il primo sussulto di un’artista che sembra aver molto da dire, non solo in futuro ma anche ora, adesso, oggi.
4. LCD SOUNDSYSTEM, “American Dream”
(Columbia)
Di certo questo inaspettato, ottimo lavoro degli LCD Soundsystem mette in mostra la anima meno autocompiaciuta di Murphy, quella più contraddittoria, umana e sofferta, per certi aspetti fragile, quotidiana e oscura, se si prova a seguire i temi dei testi. Che sia davvero, come si evince dai testi e dal mood del disco, l’ultimo capitolo del “sogno americano” di uno dei progetti più significativi, e a loro modo, influenti del nuovo secolo, è ancora presto per dirlo, ma sembra assai preconizzabile.
3. GRIZZLY BEAR, “Painted ruins”
(RCA)
Un po’ come in “Shields”, i quattro non si snaturano alla ricerca di strane chimere. Preservano le caratteristiche essenziali del loro sound, senza troppo adagiarsi, né osare. Una formula diventata inconfondibile e difficilmente riconducibile a un “maestro” o a un nome del passato, almeno che non si voglia tirare tutta la musica pop da Brian Wilson ai Radiohead. Probabilmente tra un paio di decenni chi studierà la nostra epoca si chiederà come mai, in questo ambito, idolatrassimo così tante band inutili, non dando la giusta importanza a una band come i Grizzly Bear.
2. ARCA, “Arca”
(XL Recordings)
Tra aspirazioni tecnologiche e fascinazioni tradizionali, quasi primitive, in questo terzo album omonimo il giovane venezuelano trapiantato nell’East Coast americana, guarda avanti e mette in mostra senza filtri la sua voce. Il suo passo in avanti è innanzitutto uno sguardo al suo passato, quello da eccentrico cantautore “sintetico” dei suoi primi esperimenti musicali. Tredici tracce, meno di quarantacinque minuti, un gusto classico che risale ai suoi studi di Schumann e Mendelssohn, la giusta alternanza tra invocazioni introspettive, storie d’amore e di rimpianti, break strumentali (le frustate di “Whip” come si evince dal titolo) e un pop minimale e destrutturato da togliere il fiato in in “Coraje”, “Fugaces” e “Miel”. In “Child”, traccia di chiusura, la voce scompare, inghiottita dai synth e si rimane definitivamente storditi e straziati da un’opera così affascinante e intensa, destinata a diventare una delle produzioni più significative di qui agli anni a venire.
1. KENDRICK LAMAR, “DAMN.”
(Top Dawg Entertainment)
Sicuramente Kendrick Lamar è diventato a pieno titolo un fenomeno pop, un’icona della cultura pop contemporanea, ma resta un’icona anomala: non è un cantante pop, lui continua fondamentalmente a rappare. Eppure riesce ad accrescere la sua fama, conquistando i cuori di appassionati e addetti ai lavori apparentemente molto lontani dal suo immaginario. Continua a scrivere canzoni hip hop non troppo immediate per il pubblico medio, con sporadici sprazzi di soul e R&B, testi e citazioni raramente accattivanti e un quadro di riferimenti sempre molto complesso ed elaborato. Piace a Barack Obama che ne è diventato fan. Piace ai movimenti afroamericani delusi dal primo presidente nero della storia che non l’hanno sconfessato, rendendo la sua “Alright” un anthem di protesta. Piace a tanti giovani bianchi e forse a chissà quanti simpatizzanti dell’alt-right. Kendrick resiste e unisce inspiegabilmente un’America mai così divisa, perché il suo percorso è nonostante tutto molto umano e normale.
Ci vorrà del tempo per dare il valore che merita a un’opera così complessa che arricchisce di nuovi particolari e suggestioni la mitologia urbana di un ventinovenne che facendo hip hop come tanti suoi coetanei afroamericani è diventato l’artista più importante del suo tempo.
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KALPORZ AWARDS HISTORY (ex Musikàl Awards):
Kalporz Awards 2016 (David Bowie)
Kalporz Awards 2015 (Sufjan Stevens)
Kalporz Awards 2014 (The War On Drugs)
Kalporz Awards 2013 (Kurt Vile)
Kalporz Awards 2012 (Tame Impala)
Kalporz Awards 2011 (Fleet Foxes)
Kalporz Awards 2010 (Arcade Fire)
Kalporz Awards 2009 (The Flaming Lips)
Kalporz Awards 2008 (Portishead)
Kalporz Awards 2007 (Radiohead)
Kalporz Awards 2006 (The Lemonheads)
Kalporz Awards 2005 (Low)
Kalporz Awards 2004 (Blonde Redhead, Divine Comedy, Franz Ferdinand, Wilco)
Kalporz Awards 2003 (Radiohead)
Kalporz Awards 2002 (Oneida)
Kalporz Awards 2001 (Ed Harcourt)