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Ogni anno miglioriamo la legge elettorale per gli awards delle canzoni, perché – contrariamente agli album – è molto più difficile concentrare le attenzioni di molti sulle stesse songs. La varietà impera. Dunque abbiamo votato a due turni con un secondo turno che obbligava a convogliare il proprio voto su scelte anche di altri. Insomma, bando alle ciance, a voi interessa il risultato, e avete ragione. Sappiate solo che, in coerenza con questa complicazione e maggiore ponderazione di voto, abbiamo ritenuto giusto estendere la classifica da semplice Top 7, come avevamo fatto gli altri anni, ad una più completa Top 20. E davvero le canzoni scelte hanno l’aria di poter durare nel tempo come canzoni riconoscibili di questo 2017 che volge al termine.
20. DESTROYER, “Tinseltwon Swimming In Blood”
I Destoyer inediti: abito nero, linea di basso killer e le istanze classiche di Dan Bejar incontrano i New Order. “I was a dreamer, watch me leave” riecheggia fino alla fine, quando le parole lasciano il passo ad un dolorante epilogo di sintetizzatori e fiati.
(Marco Bachini)
19. KENDRICK LAMAR, “Humble”
Un piano da base old school e una 808 martellante e ripetitiva accompagnano Kendrick Lamar attraverso uno dei brani più immediati di “DAMN.” Tra riferimenti biblici e narrazioni urbane, ritorna in qualche modo alle origini dopo le affascinanti esplorazioni jazzy di “To Pimp A Butterfly”. Nota doverosa al producer, Mike Will Made It e al video. Uno dei capolavori visuali dell’anno.
(Piero Merola)
18. FLEET FOXES, “Third of may/odaigahara”
“Third of May / Ōdaigahara” è un prisma che funziona al contrario. Invece che restituire uno spettro multicolore, i piccoli microuniversi da cui è composto riproducono un suono bianco, puro. E davanti a un pezzo così, dove la bellezza si può quasi toccare, qualsiasi discussione sulla contemporaneità della musica dei Fleet Foxes si perde di colpo nel vento.
(Stefano Solaro)
17. THE NATIONAL, “Carin at the liquor store”
“Carin…” è una canzone nata da emozioni profonde, drammi personali che messi in musica trascendono il significato letterale del testo per arrivare al cuore di chi ascolta. E’ una commovente parabola dell’amore da ballare stretti a qualcuno, per non lasciare spazio alle recriminazioni e alle conclusioni scontate.
(Francesca Garattoni)
16. FATHER JOHN MISTY, “Pure Comedy”
Una canzone che è un punto esclamativo e interrogativo, una certezza che racchiude tutte le delusioni della commedia umana. Se avete domande o cercate risposte importanti interpellate la canzone-oracolo di Tilmann.
(Gianluigi Marsibilio)
15. PROTOMARTYR, “Don’t go to Anacita”
Secondo le parole di Joe Casey, Anacita è una città immaginaria, il classico sobborgo americano calmo e tranquillo, ma che forse ha troppi poliziotti per la sua popolazione reale. È il ritratto immaginato di un’America reale, piena di liberal-minded e di persone rispettabili, quelle stesse persone che hanno reso possibile l’ascesa di Trump.
Don’t go to Anacita!
They got their goon squads on patrol
(Gianpaolo Cherchi)
14. PHOENIX, “Ti Amo”
Una dichiarazione d’amore così smaccata all’Italia da bere degli anni ’80 non c’era ancora stata da parte di una band straniera. Un’operazione pop-vintage con i filtri di Instagram e la raffinatezza francese che si convoglia in un ritornello-killer di quelli che neanche i Ricchi e Poveri.
(Paolo Bardelli)
13. THE NATIONAL, “The System Only Dreams In Total Darkness”
E’ inevitabile, la totale oscurità a cui fa riferimento Berringer è quella politica americana di Trump, e quindi pare un po’ leggersi il grido che ai tempi Yorke cantava in “The Gloaming”. Il primo singolo dell’ultimo album è arrembante e allo stesso tempo nervoso, il primo passo per una presa di coscienza necessaria per il cambiamento.
(Paolo Bardelli)
12. JLIN, “Never Created Never Destroyed”
Jlin (vero nome Jerrilynn Patton), artista dell’Indiana (USA), è partita dall’universo footwork (scena di Chicago, fortemente legata a “battaglie di ballo”) e con “Black Origami” (2017) – il secondo disco dopo l’esordio “Dark Energy” (2015) – ha saputo creare un’anima pulsante, ritmica ancora più globale, capace di contenere al proprio interno più mondi sonori.
“Never Created, Never Destroyed”, penultima traccia dell’album, n’è l’esempio perfetto.
(Monica Mazzoli)
11. SUFJAN STEVENS, “Wallowa Lake Monster”
La ricerca di dove proveniamo, del perché siamo quello che siamo, costruito come fiaba perché la realtà è troppo difficile per essere accettata, meglio ricamarci un po’ sopra con la fantasia. Una madre non dovrebbe mai lasciare i propri bambini sotto la pioggia a Detroit: ciononostante, loro cercheranno di ritrovarla e comprenderla, tutta la vita, inesorabilmente.
(Paolo Bardelli)
10. GRIZZLY BEAR, “Mourning sound”
I Bear fanno un salto nel tempo nella new wave degli Anni ’80 e riescono a semplificarsi (cosa non certo facile per loro, che sono intimamente dei musicisti tecnici e barocchi) in un singolo d’impatto assoluto che può farli apprezzare anche da chi non ha l’orecchio così abituato ai loro virtuosismi.
(Paolo Bardelli)
9. KENDRICK LAMAR, “DNA”
Kendrick Lamar è un fuoriclasse, a volte è talmente bravo da non suscitare reazioni umane e spontanee. “DNA.” è un brano alla sua maniera, dove il flow a tratti è difficile da seguire anche testo alla mano. Mike Will Made It al timone anche in questo brano, secondo singolo di “DNA.”. Il testo inquadra come sempre il momento storico, mettendo a fuoco con lucidità e sobrietà decenni di tensioni razziali.
8. THE NATIONAL, “Guilty party”
Perché i National sanno raccontare magnificamente le sconfitte.
(Paolo Bardelli)
7. KELLY LEE OWENS, “Lucid”
Un vortice nebuloso di echi e riverberi che ti cattura, ti ipnotizza e ti conduce nel bel mezzo di un club londinese. “Lucid”, uno dei brani protagonisti dell’esordio discografico di Kelly Lee Owens, è la storia di un viaggio che in realtà di lucido ha ben poco. Questo pezzo, e in realtà tutto l’album, altro non sono che la colonna perfetta per lasciarsi prendere bene.
(Enrico Stradi)
6. BIG THIEF, “Shark Smile
Adrianne Lenker è una songwriter di razza per due semplicissimi motivi; il primo è per la capacità di trasmettere emozioni attraverso testi criptici e sfocati che diventano immagini nitidissime (me lo immagino questo ghigno malefico, da squalo, da vampiro). Il secondo è perchè con i Big Thief ha dato ancora importanza al concetto di gruppo rock. Le chitarre, il basso, la batteria, la voce, i testi, i significati, le storie, le delusioni, le paure. Tutto così intenso, però senza far rumore.
(Nicola Guerra)
5. ARIEL PINK, “Dreamdate Narcissist”
La canzone più rappresentativa del disco che Ariel Pink ha voluto dedicare a Bobby Jameson, figura fondamentale della musica americana degli anni sessanta e dove la controcultura di quegli anni si fonde con lo stile e la scrittura stravagante della personalità più eccentrica della scena pop psichedelica contemporanea.
(Emiliano D’Aniello)
4. LCD SOUNDSYSTEM, “Oh Baby”
Non è solo una traccia di apertura. Suona come il ritorno a casa dopo un viaggio un po’ troppo lungo. A ogni passo un pezzo della propria storia: i synth, la voce di Murphy, quel battito lì e i compagni di sempre. E la casa sembra nuova.
(Marco Bachini)
3. ARCA, “Desafìo”
“Desafìo”, unica strizzata d’occhio vagamente dance e, a suo modo, da club, dove è messo a fuoco questo “futurismo primitivo” dal fortissimo empatto emozionale. La voce sa essere disturbata, disturbante, ostile, avvolgente, calda e al tempo stesso glaciale e distaccata.
(Piero Merola)
2. LIBERATO, “Tu T’e Scurdat’ ‘e Me”
Poco più di quattro minuti per spiegare in maniera esemplare come il migliore pop internazionale si può fare anche in Italia, e pure (anzi, soprattutto) in dialetto napoletano. La forza di questa canzone è proprio l’averci fregati tutti: non c’è antidoto, chi l’ascolta la canticchia un minuto dopo, ne esce pazzo, non ne riesce più a fare a meno. Ha vinto lui, abbiamo perso noi che abbiamo cercato invano di resistergli. Lunga vita a Liberato.
(Enrico Stradi)
1. LCD SOUNDSYSTEM, “Call The Police”
È semplicemente la miglior canzone dell’anno, una spanna sopra tutte, e il motivo è semplice: il sogno in cui tutti noi viviamo (che è lo stesso american dream che dà il titolo all’album, però più grande, planetario) è diventato un incubo morente, si è dissolto in fumo. “We all know this is nothing”. Si potrebbe citare tutto il testo a proposito, perché “Call the police” è una carrellata di immagini di morte, un inno rivolto ai perdenti, a tutti noi, a chi ci ha creduto e si è sbattuto, o anche solo a chi ha dato il meglio di sé senza nemmeno sapere per quale motivo stesse lottando; a tutti i cuori che pulsano allo stesso ritmo delle drum machine, a chi ha lottato per qualcosa e con la convinzione che ci fosse veramente qualcosa, da qualche parte.
“We all know this is nowhere, and there is no one, here”
(Gianpaolo Cherchi)
Precedenti edizioni:
Kalporz Awards Songs 2016 (Top 7)
Kalporz Awards Songs 2015 (Top 7)
Kalporz Awards Songs 2014 (Top 7)