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Dunk è una botte di legname dove possiamo nascondere le nostre insicurezze. Dunk è un non luogo in un bosco dove cominciare a gridare, con stile, ma pieni di rabbia. Dunk è una giovane donna che segue il suo vecchio amante. Dunk è sinonimo di tutto quello che di bello possiamo pensare della musica italiana: non a caso i membri sono i fratelli Giuradei, un membro dei Verdena e un pezzo pregiato dei Marta Sui Tubi.
Ettore e Marco Giuradei, Luca Ferrari e Carmelo Pipitone, formano uno di quei piatti pieni di cose buone che, al primo impatto, è anche difficile definire in poche parole.
La super band si slega dalle classiche delusioni discografiche che spesso ci hanno regalato le varie band costruite con membri provenienti da altre situazioni musicali. I Dunk, con il loro omonimo esordio, riescono a coniugare al meglio le loro varie esperienze musicali. Il disco ha una base ritmica degna del miglior rullo compressore Luca Ferrari, le chitarre hanno quello spirito folk e sporco preso dai Marta sui Tubi e il songwriting di Ettore Giuradei è super efficace e seppur dalle parole molto semplici riesce ad essere conciso, pulito e senza orpelli pretenziosi.
Il gruppo dimostra di saper vivere nel 2018, non c’è mai alcun momento nostalgia, ma solo brillante e acuta contemporaneità.
Il disco mi ricorda una frase estremamente luminosa di Leonilson, artista brasiliano morto all’età di trentasei anni, di AIDS: “Here comes your man / full of numbers and words”. L’uomo pieno di numeri e parole si mostra a pieno in un lavoro ben dosato tra ballad, spinte rock e folk.
Gli arrangiamenti sono sporchi abbastanza per rendere il disco aggressivo e diverso anche dai vari stili che gli artisti hanno rappresentato nelle loro carriere con altre band: anche con ballad come Ballata 1 e 2 non si cade mai in banalità, i testi sono sempre lucidi nell’analizzare rabbie, delusioni e incertezze.
Raccontare un mondo diverso, con una lingua diversa e più diretta rispetto al passato è una sfida vinta. Da tutto questo nasce un racconto di un gruppo omogeneo e ben amalgamato in questa creatura che speriamo continui anche nel futuro ad alternarsi ai vari dischi dei Verdena e Marta sui Tubi.
Se alcuni professano da anni la fine del rock, in particolare di quello italiano, possiamo preparare per questi uccelli del malaugurio una busta con dentro il disco dei Dunk e la frase di T.S. Eliot: “In my beginning is my end. In my end is my beginning”.
Fine, Inizio: due parole vicine che unite formano una scritta, un suono onomatopeico. Dunk.
68/100
(Gianluigi Marsibilio)