Share This Article
BRAINBLOODVOLUME, la rubrica di musica psichedelica in diretta dal pianeta Kalporz arriva al suo terzo capitolo. Questa volta Emiliano D’Aniello, interrogandosi sulle origini dell’universo e l’esistenza della musica psichedelica, prende alla lettera gli insegnamenti del pensiero di Carl Sagan e rifacendosi alle basi del metodo scientifico, nel presentarvi alcune delle uscite più interessanti nel genere, propone una delle massime del celebre divulgatore scientifico: “Affermazioni straordinarie, richiedono prove straordinarie.”
Eccole qui.
ANNA VON HAUSSWOLFF, “Dead Magic” (City Slang, 2018)
75/100
Anna Michaela Ebba von Hausswolff (classe 1986), conosciuta più semplicemente come Anna von Hausswolff, figlia del compositore e artista Carl Michael, si è guadagnata con i lavori pubblicati negli ultimi anni quella etichetta di “sacerdotessa” oppure “musa” del cantautorato dark che trovo francamente inflazionata e ormai priva di senso, dato che viene praticamente assegnata a ogni nuova cantante e autrice che si affacci sulle scene. Il suo nuovo disco, registrato a Copenaghen in Danimarca in soli nove giorni in compagnia della sua band e del produttore e musicista americano Randall Dunn (Sunn O))), Six Organs of Admittance, Akron/Family, Oren Ambarchi…) costituisce una vera rivelazione nel genere psichedelico più oscuro e votato a un certo misticismo che del resto costituisce una componente tipica di un ramo del genere diffuso specialmente nel nord del nostro continente.
In uscita il prossimo 2 marzo su City Slang “Dead Magic” è un disco di psichedelia rituale e dal fascino ancestrale in cui si distinguono la scrittura e le bellissime interpretazioni vocali di Anna, che si spinge oltre gli schemi del genere dimostrando anche una certa grinta e verve di matrice acid blues (“The Mysterious Vanishing of Electra”), con le capacità dei suoi musicisti e in particolare l’opera di un produttore navigato e determinante come Randall Dunn. Dentro ci sono cinque tracce che riprendono una tradizione psichedelica che affonda le sue radici nelle sperimentazioni del genere degli anni sessanta-settanta e che hanno quella componente magica negli ultimi anni rilanciata da Dead Skeletons o comunque in maniera differente ma in ogni caso rituale da progetti come TAU oppure Cult of Dom Keller. “The Truth, The Glow, The Fall” (che ricorda veramente molto “Here It Comes” dei Brian Jonestown Massacre) introduce subito il potente suono del gigantesco organo a canne di Marmorkirken (una delle principali chiese di Copenaghen) usato nelle sessioni di registrazione, sapientemente dosato e combinato con sonorità drone (“Ugly and Vengeful”) e sintetiche psichedeliche e che in alcune composizioni come “The Marble Eye” ha quei toni tenebrosi del cinema di Jean Rollin e che sublima letteralmente (“Kallans ateruppstandelse”) lo stile di Anna. Un disco molto bello di una artista adesso finalmente riconoscibile e slegata da paragoni impropri con grandi figure del passato (Nico) o del presente (Chelsea Wolfe): un salto di qualità importante.
HEADROOM, “Head In The Clouds” (Trouble In Mind, 2017)
79/100
Headroom nasce nel 2016 come progetto solista della chitarrista e vocalist Krissy Battalene della città di New Haven nello stato del Connecticut. Già coinvolta in altri progetti come Colorguard e Mountain Movers, Krissy è sicuramente una dellle chitarriste più interessanti della scena neo-psichedelica del Connecticut e “Head In The Clouds” è il suo primo LP pubblicato lo scorso 25 ottobre via Trouble In Mind records.
Reclutata una band (Rick Omonte, Ross Menze, David Shapiro, Stefan Christensen, John VanDuzee) in larga parte composta dagli stessi musicisti che la hanno già accompagnata nelle fasi di registrazione dell’EP eponimo “Headroom” uscito nel 2016, Krissy dà libero sfogo in questa sua uscita discografica a lunghe composizioni psichedeliche per lo più strumentali e nelle quali, sostenuta da una band affiatata e che in maniera sapiente e consapevole si mette completamente a sua disposizione, dà sfoggio di tutte le sue capacità tecniche ma in particolare della sua inventiva. Il ruolo della chitarra è chiaramente centrale in ognuna delle cinque tracce che compongono l’album e che ad eccezione che “Millers Pond” hanno tutte una durata compresa tra gli otto e i dieci minuti. Lo schema, ripetuto traccia dopo traccia, è in buona sostanza sempre lo stesso: ispirandosi a esperienze del mondo della psichedelia rumorose e devote a una certa sacralità drone come i Bardo Pondo oppure a un astrattismo noise Les Rallizes Denudes (senza considerare l’inevitabile impronta Mountain Movers), la psichedelia di marca Headroom è profondamente suggestiva e il suono della chitarra a tratti sembra quasi levitare su quelle nuvole richiamate nel titolo dell’album (la costruzione di arpeggi di “Millers Pond” oppure la title-track, accompagnata dal profondo suono dell’organo farfisa), a tratti quasi risucchiare l’ascoltatore in una specie di vortice drone (“How to Grow Evil Flowers”, “Flower of Light”) oppure noise astratto (“The Second Blazing Star”) in una sequenza di sonorità fuzz e feedback interminabili. Il risultato finale è francamente sorprendente e l’impronta garage e quei margini di errore varcati in maniera spontanea senza ricorrere a nessun perfezionismo, le performance vocali fantasma nello stile White Heaven e Ghost non fanno altro che accrescere le grandi suggestioni estatiche e la bellezza naturale di un disco bello veramente come pochi altri non solo nel panorama della musica psichedelica.
SUNDRIFTER, “Visitations” (Sundrifter, 2018)
72/100
Questo gruppo di spaccamontagne viene da Boston nel Massachusetts e si ispira dichiaramente al rock più acido degli anni novanta-duemila a partire dalla grande lezione dei Kyuss e quindi dei Queens Of The Stone Age ma senza trascurare alcune esperienze più psichedeliche e devote al sound degli anni settanta dei vari Black Sabbath, Led Zeppelin e Iggy & The Stooges. Tutto questo inserito in un contesto spaziale e fantascientifico con tanto di citazione nella presentazione del disco del grande astronomo e scrittore Carl Sagan (1934-1996), conosciuto come autore del celebre romanzo sci-fi “Contact” (1985) e di molti episodi della serie televisiva Star Trek, ma soprattutto per essere stato uno dei principali fautori del Progetto SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), programma dedicato alla ricerca della vita ingelligente extraterrestre abbastanza evoluta da potere inviare segnali radio nel cosmo.
Il gruppo si chiama Sundrifter ed è un terzetto formato da Craig Peura (voce e chitarre), Paul Gaughran (basso chitarra) e Patrick Queenan (batteria). Dopo un primo LP pubblicato nel 2016 il gruppo ha cominciato a suonare e farsi conoscere in tutta l’area del New England e di Boston, ma non ha ancora compiuto il grande salto e il lancio in tutta l’area degli Stati Uniti d’America. Ci provano adesso con questo nuovo album intitolato “Visitations” e la cui visione spaziale del sound heavy-psych e stoner si evince già dalla immagine di copertina, chiaramente omaggio alla fantascienza classica degli anni cinquanta. Va detto che una certa componente spaziale non manca neppure nel sound del gruppo che ha quella stessa esplosività del lancio di un razzo spaziale a mille chilometri orari e che sviluppa in otto tracce attraverso acidità grunge (“Death March”, “Till You Come Down”…), visioni desertiche allucinate (“Lightworker”), e heavy-psych Pontiak (“Sky People Sun”) oppure nello stile più monolitico che una volta era degli Arbouretum (“Fire In The Sky”, “Targeted”), fino alla conclusiva ballad “I Want To Leave”. Una vera e propria dichiarazione di intenti guardando allo spazio cosmico che scossi dalla potenza di un terremoto qui ci sembra quasi di arrivare a toccare con mano.
DREAMWEAPON, “SOL” (Fuzz Club Records, 2018)
70/100
Dreamweapon è un progetto fondato nel 2011 dal bassista dei 10,000 Russo André Couto con Edgar Moreira e Joao Campos Costa. Il gruppo ha già alle spalle due-tre pubblicazioni tra cui un LP uscito nel 2015 per l’etichetta Lovers & Lollypops e ha già avuto una certa attenzione a livello internazionale con la partecipazione tra le altre cose al Liverpool Psych Fest. Con queste credenziali e dopo il successo di “10,000 Russos” (2015) e “Distress Distress” (2017) i Dreamweapon sono entrati sotto l’ala protettiva della Fuzz Club Records che il 16 febbraio ha pubblicato il loro nuovo LP intitolato “SOL”. Il disco è un lavoro musicalmente e concettualmente ispirato tanto al live degli Spacemen 3 del 1990 “Dreamweapon: An Evening of Contemporary Sitar Music” quanto all’opera visionaria “Dream Music” di La Monte Young e la sessione multimediale “Rites of The Dreamweapon”, membro fondatore e primo batterista dei Velvet Undergound Angus McLise.
Dei riferimenti ben chiari quindi e che del resto sono tutti quanti richiamati proprio nel nome del progetto e che in questo album sono sviluppati in quattro tracce solo strumentali dalla durata tra gli otto e i quindici minuti ciascuna. Tra queste c’è “Monte da Virgem” che era già stata inclusa in una compilation della Fuzz Club Records, una traccia dal carattere ossessivo e che riprende schemi tipici del kraut-rock impestando le atmosfere con quel virus drone che germina rigoglioso e potente in seno al sound dei 10,000 Russos. Ancora su strutture fondamentalmente kraut sono costruite anche “Mashinne” e “Qram”, con questa seconda traccia in particolare che ha una certa componente motorik più accentuata rispetto alle altre due e costruita su paesaggi sonori più interessanti e stridenti. Ma il momento migliore e sicuramente più interessante perché fuori dai canoni soliti del genere è il minimslidmo di “Blauerkishe” il concept sviluppato è monotematico, retto dalla continuità e ripetitività della sezione ritmica e che si producono in una serie di oscillazioni sonore che costituiscono alterazioni sensibili e che danno un senso alla intera composizione. Così come in qualche modo all’intera pubblicazione, dato che il resto del contenuto, per quanto non deprecabile, non costituisce qualche cosa di particolarmente nuovo e brillante e denota una certa piattezza che alla lunga può sicuramente far desistere l’ascoltatore.
NEBULA, “Let It Burn EP” (Heavy Psych Sounds Records, 2018)
84/100
Proprio negli stessi giorni in cui è stato pubblicato il nuovo (scadente) album dei Fu Manchu mi è capitata tra le mani questa ristampa del primo EP dei Nebula, il gruppo formato nel 1997 dal chitarrista Eddie Glass proprio dopo avere mollato la band di Scott Hill, nella quale aveva militato dal 1993 al 1996. “Let It Burn” è solo la prima pubblicazione di una serie di tre ristampe che la giovane etichetta romana Heavy Psych Sounds Records ha in programma per quello che riguarda lo storico gruppo di LA: seguiranno infatti il primo LP “To The Center” e “Dos EPs” per completare una operazione che vuole essere allo stesso tempo un omaggio quanto la riproposizione di un pezzo importante della musica rock psichedelica e stoner a cavallo tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio.
Pubblicato la prima volta su Tee Pee Records nel 1998, “Let It Burn” segnava l’esordio dei Nebula, una formazione allora formata da Eddie Glass (voce e chitarra), Mark Abshire (basso) e l’altro ex Fu Manchu Ruben Romano (batteria). Un disco rivelatore per il genere e che aprì la strada al gruppo che poi in breve tempo si affermò come una delle realtà più potenti e acide della scena rock and roll USA. Il sound dei Nebula era del resto meno monolitico di quello dei Fu Manchu e proprio questa maggiore flessuosità a distanza di vent’anni conferisce a questo EP la stessa carica e freschezza che gli si riconosceva ai tempi della sua pubblicazione. Un vero e proprio viaggio acido alla massima velocità e in cui si susseguono bordate heavy-psych e stoner ad alta intensità infettate di veemenza post-punk e hardcore: “Elevation”, “Down the Highway”, “Let It Burn”, “Vulcan Bomber”, “Dragon Eye”… fino a “Raga In The Bloodshot Pyramid” che vede Ruben Romano disimpegnarsi nel suono del sitar e arricchire il campionario della band con un episodio di psichedelia orientale mescolato a sciamanesimo del deserto e assunzioni di peyote. Già completato a suo tempo da due bonus track, questa nuova stampa made in Heavy Psych Sounds Records aggiunge una versione live di “Let It Burn” registrata durante una partecipazione della band al festival di Roskilde e una demo version di “Devil’s Liquid”.
I Nebula mettevano assieme il desert-rock di marca Kyuss con quella acidità derivata da MC5 e Blue Cheer, l’attitudine punk degli Stooges e il fuzz Mudhoney: il risultato era ed è ancora oggi una vera e propria bomba. Un disco fondamentale.
CARLTON MELTON, “Mind Minerals” (Agitated Records, 2018)
58/100
I Carlton Melton di Andy Duvall sono sicuramente una band di grande stile e eleganza all’interno del macro-mondo del genere rock psichedelico, ma asserire che questo non basti affinché ogni nuovo disco sia un bersaglio centrato non è sicuramente maldicenza. Allo stesso tempo questa non vuole neppure costituire una stroncatura definitiva, ma senza dubbio sostenere che “Mind Minerals” sia un disco caratterizzato da una certa piattezza e monotematicità corrisponde grosso modo al vero e allora diventa, come dire, anche difficile nascondere una certa delusione.
Nato da una reincarnazione della garage band Zen Guerrilla per volontà di Andy Duvall e Rich Milmann alla fine dello scorso decennio, Carlton Melton si è presto affermato come una delle realtà più interessanti provenienti dal nord della California con quelle lunghe sessioni acide psichedeliche che sono riproposte anche in questo ultimo disco pubblicato su Agitated Records lo scorso 2 febbraio. La componente centrale del gruppo sono probabilmente sempre stati i suoni delle chitarre, che del resto sono sicuramente interessanti anche in questo caso in pezzi carichi di energia elettro-statica come “Electrified Sky”, “Eternal Returns” oppure sessioni di deep space ambient come “Atmospheric River” o “Sea Legs” o “Climbing the Ladder” e in cui legano in maniera sapiente con la profondità del suono dei synth, che è una vera e propria costante in “Mind Minerals” in tracce come “The Lighthouse” o “Snow Moon” e dove costituise peraltro l’unico vero e proprio tema compositivo in una specie di minimalismo di derivazione La Mounte Young.
Come detto precedentemente, tuttavia, traccia dopo traccia nell’ascolto continuo di questo disco si avverte quella che possiamo definire come un po’ di “stanca” e che probabilmente deriva più che dalla mancata qualità di questo gruppo, da quella che si può definire come una sbagliata concezione degli spazi e dei tempi e che dopo avere ascoltato e riascoltato “Mind Minerals” dall’inizio alla fine più volte, non puoi che considerare come una certa approssimazione oppure come quello che si potrebbe definire un errore di calcolo.
BLACK LIZARD, “Celebration Of A New Dawn” (Fuzz Club Records, 2018)
78/100
Riecco quella che con ogni probabilità è in questo momento la migliore band di rock psichedelia proveniente dalla Finlandia: da Helsinki tornano i Black Lizard con il loro terzo LP intitolato “Celebration Of A New Dawn” e in uscita per la solita Fuzz Club Records il prossimo 16 marzo. Il quartetto composto da Paltsa-Kai Salama, Joni Seppanen, Lauri Lyytinen e Onni Nieminen, che mi aveva già brillantemente colpito con il precedente LP intitolato “Solarize” e pubblicato per l’etichetta finlandese Soliti, qui si rilancia con un disco forse meno acido rispetto al precedente ma che brilla letteralmente di una luce speciale che ci arriva al cuore come un raggio di sole riflesso su una superficie ricoperta di ghiaccio direttamente agli occhi.
Definiti come dei “black rocker” per la loro estetica accattivante e tenebrosa, i Black Lizard propongono in questo disco una formula probabilmente semplice ma in una maniera convincente che non potrà che alla fine conquistare ogni ascoltatore non necessariamente devoto al movimento neo-psichedelico. Ispirata alle sonorità della west coast e alla psichedelia garage degli anni sessanta-settanta la musica dei Black Lizard ha una componente allo stesso tempo tanto rituale e blues quanto evocativa di località remote e lontane, come volere spingersi con lo sguardo e l’immaginazione oltre confini segnati solo sul piano geografico ma non all’interno della nostra mente. A aprire le danze è “Sinking Ship”, uno dei pezzi più rock and roll del disco con “Elevation” e le distorsioni elettriche e il fuzz di “I Can’t Be Found”, e dove si introduce il suono tipico dell’organo che in un pezzo come “Lilac Garden” si esalta nel dipingere paesaggi floreali anni sessanta e in “Morning Bliss” apre a melodie post-beatlesiane come quelle di “Window In Time”, mentre con “Sister Purple” marca l’accento su una specie di gospel BRMC (vedi anche il groove “Black Shadow”) e con “At The Gates Of Sun” assieme alla ripresa del riff di chitarra di “The End” The Doors trasmette allucinazioni rock-blues.
Il giudizio finale è largamente positivo perché per quanto questo disco sia forse sotto il livello di “Solarize” per quello che riguarda una certa carica e il vibe che qui è più orientato verso mete pop psichedeliche che una acidità garage Blue Cheer e MC5, allo stesso tempo la maggiore facilità di ascolto ben si combina alla pubblicazione sotto l’egida Fuzz Club Records che potrà conferire finalmente a questo grande gruppo una notorietà maggiore rispetto a quella ottenuta finora.
Emiliano D’Aniello