Share This Article
Da quando ho avuto una discussione in merito con il mio amico Folegati, non riesco a non abbinare il debut-album delle Dream Wife al termine “rockismo”. Perché in effetti oramai il dado è tratto, e seppure la definizione sia nata in tempi non sospetti per definire una sorta di religione seguita da chi non intravede altra salvezza fuori dal rock, è proprio ora – momento storico in cui gli artisti pop ed hiphop sostituiscono i rockers nei Festival – che il discrimine si sta facendo davvero un solco incolmabile. Come tutti gli estremi, ci sono prese di posizione connotate da chiusura mentale. Come tutte le generalizzazioni, si fa fatica a fare un discorso lineare, e soprattutto la recensione delle Dream Wife non è, in effetti, il luogo adatto. Ci torneremo su nelle sedi appropriate.
Però è molto utile partire da lì per riaffermare che nel 2018, in Inghilterra, c’è ancora qualcuno (e sono donne, e ciò non è banale) che crede fermamente nel primato del punk-rock. Le Dream Wife sono un trio formatosi nel 2014 nei dintorni di un art college in Brighton, e più in particolare la nativa islandese Rakel Mjöll (voce), Alice Go (chitarre), and Bella Podpadec (basso), e hanno uno spiccato senso della melodia unito ad un approccio davvero energico. Rockista, potremmo dire. Perché quando Rakel urla con la sua voce sottilina in “Let’s Make Out” o in “F.U.U.” sopra ai “cari e vecchi” sbrang chitarristici sovvengono immediatamente le Hole e il movimento riot grrrl, ma senza un appiattimento a quello che fu, piuttosto con uno stile ed eleganza – anche di suono – che pare smussare gli angoli machistici del genere. Così il suono si appoggia a riff da ballare in pista stile “Munich”degli Editors (“Fire“) oppure si asciuga alla NY di inizi anni zero (ed emergono immediatamente gli Strokes alla memoria) nello splendido singolo “Somebody“. Singolo a cui dedicare un capitolo a parte: il sottoscritto l’aveva inserito in una top settimanale ma neanche al 1° posto, poi alla fine dell’anno nel rimettere in ordine tutte le migliori song dell’anno si era accorto che la canzone spaccava di brutto, e teneva testa all’ardire del tempo che scorre (e alla fine è stata segnalata come la 12a canzone più bella dell’anno, sempre per i miei personalissimi gusti, ovviamente). Riconfermo anche oggi, “Somebody” ha lo sbuzzo giusto per travalicare le annate, nella sua classicità rock arrembante.
Ma poi è vero pure che le Dream Wife hanno anche un indole pop che non va nascosta, basta ascoltarsi “Love Without Reason” o “Act My Age” e lì i riferimenti vanno più a Blondie e alla sua newwave sporcata di punk, oppure basta attestare a che gruppi venissero associate all’inizio, ai tempi dell’“Ep-1”, ovvero Madonna e David Bowie (!). Per cui – diciamolo – gli steccati degli -ismi, rockismo o poptimismo che sia, lasciano il tempo che trovano. Tutto è fluido, tutto è difficile da catalogare, rimane solo il vecchio detto di un mio amico chitarrista, al tempo in cui sostenevo che la musica dovesse essere necessariamente sperimentale, secondo cui esiste solo la buona e la cattiva musica. Null’altro. E questo ci mette in crisi, perché dobbiamo essere noi a saper riconoscere quale sia quella buona.
81/100
(Paolo Bardelli)