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Il 10 febbraio del 1998 usciva quello che si sarebbe rivelato uno dei dischi più significativi del decennio. Da molti riscoperto qualche anno dopo, grazie a un mito cavalcato dai blog americani e deal web, “In The Aeroplane Over The Sea” è il disco più celebrato del collettivo Elephant 6 fondato da Jeff Mangum, enigmatico autore e frontman dei Neutral Milk Hotel, in cui è affiancato da Jeremy Barnes, Julian Koster e Scott Spillane.
Uscito in quell’inverno su Merge Records, è stato ristampato per l’Europa da Blue Rose Records per il Regno Unito. Da quel momento un lungo percorso sotterraneo, tra culto e mito underground, fino alla reunion del 2013 e all’annuncio con un anno di anticipo della loro partecipazione al Primavera Sound 2014.
Da un’imprevedibile connessione tra le parole e le storie raccontate da Anna Frank e le turbe esistenziali di un introverso cantautore e musicista della Louisiana è nato uno dei dischi più emozionanti e più a lungo sottovalutati degli anni Novanta. Jeff Magnum ha dato voce al tragico destino della giovanissima bambina ebrea vissuta in clandestinità in una casa di Amsterdam con undici tracce che trafiggono i cuori più duri, tra viscerali ballad folk figlie della tradizione americana, cacofonie psichedeliche, escursioni jazzy e contaminazioni est-europee. “In The Aeroplane Over The Sea” deve parte della sua riscoperta al web e au un seguito entusiasta e sempre sotterraneo che l’ha eretto a disco manifesto di una minoranza silenziosa di nostalgici emo e indie-rock, intendendo i generi nel senso più alto e puro del termine.
L’album è una continua altalena emotiva. Dalle lacrime delle strazianti “Oh Comely” a “Two Headed Boy Part Two” si scivola nello stordimento delle strumentali “Ghost” e “Fool”. E poi la leggendaria titletrack, “Two Headed Boy”, “Holland 1945” o “The King Of Carrot Flowers”, divisa in tre piccoli atti che diventano le ultime canzoni da cantare a squarciagola in uno dei decenni musicalmente più vari, contraddittori e autolesionisti della storia musicale degli Stati Uniti.
(Piero Merola)
Provateci voi a parlare di In The Airplane Over The Sea e avere trent’anni, essere cresciuti con quel tipo di indie lì, l’ultimo indie bianco ma al tempo stesso contaminabile tra tradizione, innovazione, lateralità varie sia dal punto di vista strumentale, che geografico e stilisticamente non maschilista che ha avuto senso ascoltare, essersi convinti che abbandonarsi alla nostalgia per quello che è stato e che non può più essere (l’indie pop, l’indie rock, la Sub Pop degli anni Zero, la Merge Records, e tutti i discorsi che per secoli abbiamo fatto su queste pagine sono in “pausa”, per essere gentili) sia tutto sommato un errore e non apparire stucchevoli, stronzi, o improvvisamente degli invecchiati ormai diventati parte del problemi. Poi però il ricordo torna al concerto del Primavera Sound in cui tutti — tutti! — ci siamo trovati a cantare «What a beautiful face/I have found in this place» dopo averla usata per anni come pezzo per i soundcheck delle nostre indie band derivative che non avrebbero mai combinato mai niente (♫♫♫I was there, when Cosmo sang in English and Poggio tried to be our Conor Oberst, in the back of a bar in front of a crowd of three ♫♫♫) e ritrovarci improvvisamente nell’unico momento comunitario autentico che ci è stato disposto di avere nell’essere nati fuori dal tempo, fuori dai luoghi e fuori dalle cose che contavano. Il mondo stava andando da un’altra parte, non ce ne stavamo accorgendo e in fondo non ce ne fregava nemmeno niente. È andata così. Adesso possiamo raccontarlo. Volete davvero dirmi che sto disco che alle mie orecchie suona ancora meravigliosamente attuale nella sua amara riflessione sulla vacuità dell’esistenza (perché sì, ok, siamo tutti innamorati ma «And one day we will die/And our ashes will fly from the aeroplane over the sea») e sulla necessità di viversi i momenti con quella mancanza di grazia così melodica e così bella in un modo così indescrivibile da essere solo goduta ascoltandola, ha vent’anni? Oh cristo santo.
(Hamilton Santià)
La musica può avere un potere psicomagico?
Il presupposto iniziale per rispondere sì a questa domanda dovrebbe essere anzitutto la fede nella psicomagia in sé, se non nel suo intero retroterra onirico, sciamanico e curativo.
Se un gesto rituale apparentemente insensato può guarire profonde voragini dello spirito e del corpo, allora, perché no, anche la musica può farlo.
Potrà sembrare bizzarro, ma proprio in quest’ottica può essere riletta, a distanza di 20 anni, quella pietra miliare del rock indipendente che fu “In The Aeroplane Over The Sea” dei Neutral Milk Hotel.
Si tratta di uno di quei rari casi in cui note e parole nascono come liturgia personale, per diventare poi cerimonia collettiva, una surreale processione lunga undici brani, dove il folk si colora di psichedelia, i fiati si fondono con le chitarre elettriche, il cantato strascicato del menestrello muta nella preghiera stridula di un trovatore, e le maschere evocate non sono più simboli, ma figure vivide, che si muovono accanto a noi con una mano sulla nostra spalla.
E se perfino la piccola Anna Frank ora è “a little boy in Spain playing pianos filled with flames”, la speranza è che, ascoltando questo capolavoro, del viaggio purificatorio di Jeff Magnum alla radice dei propri demoni possa rimanere qualcosa addosso anche a noi.
(Stefano Solaro)
Quando mi hanno proposto di scrivere due righe su un “In the Aeroplane Over the Sea” dei Neutral Milk Hotel di Jeff Mangum, devo dire che il mio primo pensiero per la verità sia andato a Bill Doss. Bill Doss era amico di Jeff sin da quando erano ragazzi e tra le tante cose era il frontman degli Olivia Tremor Control, una delle band che ho più amato in tutta la mia vita come ascoltatore e che ho avuto la fortuna di vedere dal vivo proprio in una serata bellissima in cui il gruppo accompagnava Jeff Mangum nel suo primo tour in solitaria dopo tanti anni di pausa. Era il 2012, credo sia stato l’ultimo o comunque uno degli ultimi concerti degli Olivia Tremor Control, perché Bill Doss purtroppo morì un mese dopo lasciando un vuoto incolmabile nella scena del rock psichedelico USA. “In The Aeroplane Over the Sea” è anche tutto questo. Il disco ha un significato e un valore che trascendono la perfezione dell’opera in se stessa e quelle canzoni bellissime, visionarie e sensibili e capolavoro del folk pop psichedelico e dell’estetica lo-fi. “In the Aeroplane Over the Sea” vi spalanca letteralmente le porte a un intero mondo della controcultura USA di quegli anni anni e in particolare a quella storia incredibile che è stata la Elephant 6. La cosa bella è che non c’è altro da aggiungere perché questa qui in fondo non ha bisogno di essere una commemorazione: nell’era di internet – ci siamo dentro già da un bel po’ – se ascolti musica, prima o poi questo disco lo becchi sicuramente. Ma pochi altri, proprio come questo, avranno lo stesso potere di aprire nuove inaspettate prospettive e rivoluzionare la vostra vita e esperienza come ascoltatori di musica. Tanti auguri.
(Emanuele D’Aniello)
Sono passati 20 anni dalla sua pubblicazione, ma ne sarebbero potuti passare anche 50, così come sarebbe potuto essere ieri. È la caratteristica dei dischi senza tempo, dei pezzi di storia della musica, dei capolavori intramontabili, come nel caso di “In The Aeroplane Over The Sea” dei Neutral Milk Hotel.
La storia la conosciamo tutti: un registratore a 4 piste portato in giro per gli States durante il tour di “On Avery Island”, e un taccuino pieno di note, schizzi, appunti, suggestioni ispirate dalla lettura del diario di Anna Frank. Questa la cronaca, insomma, questi gli ingredienti. Manca però l’elemento più importante, quello senza il quale niente sarebbe potuto essere, e che non è sostituibile, che sfugge a qualsiasi forma di riproduzione e di imitazione: Jeff Mangum e il suo songwriting, puro e cristallino come pochi altri nella generazione dei Nineties. Qualcosa che parte dritto dritto da Bob Dylan, Don McLean, Neil Young, e che è in grado di raccogliere insieme le più variegate esperienze musicali e rielaborarle con una facilità impressionante.
Incredibile il numero degli strumenti utilizzati per la registrazione, alcuni perfino ignoti ai più (ditemi voi che cosa sia un eufonio, ad esempio, o come sia fatto e come suoni uno zanzitofono). Maniacale la cura e la ricerca di trame sonore mai consuete, tanto da portare Mangum a scoraggiare i musicisti che lo hanno aiutato ad affidarsi a soluzioni facili e familiari. Il risultato è un disco che suona in maniera insolita, e che è in grado di arrivare dritto al cuore come poche altre cose. Una gemma, una perla cristallina, un vero capolavoro.
(Gianpaolo Cherchi)