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La rubrica di musica psichedelica BRAINBLOODVOLUME di Emiliano D’Aniello anche questa volta vi propone una miscela di album del genere attraverso un viaggio tanto nello spazio quanto nel tempo. Del resto come abbiamo già avuto modo di raccontare, la musica psichedelica ha una componente transdimensionale: se abbiamo cominciato parlando di “trapanazione” e di come questa abbia una componente tanto terapeutica quanto volta a acquisire una certa consapevolezza; se pensiamo a Aldous Huxley e la mescalina, la beat-generation e la cultura new age in fondo notiamo in ogni caso una componente “mitica”. Come se l’uomo ricercasse nella psichedelia quel “mito” che poi oggi riconosciamo nella musica rock, ma che una volta poteva essere il mito dei pirati oppure quello dei pistoleri. Prendete Butch Cassidy, uno dei più famosi banditi della storia del West: dopo la fine del “Mucchio Selvaggio”, assieme al suo compare Sundance Kid fuggì in Sud America in Argentina e poi in Bolivia, dove alla fine lo avrebbero beccato e crivellato di colpi di pistola. Butch Cassidy era un criminale e un pistolero. Eppure allo stesso tempo è stato come Jack Kerouac e Neal Cassady, è stato Jimmy Dean, è stato Mick Jagger e Keith Richards e il suo fantasma (secondo Bruce Chatwin in fondo Cassidy sarebbe ancora vivo) probabilmente continua a percorrere quelle strade che dalla Patagonia arrivano fino al Centro-America e poi al confine con quella terra di matti che sono gli Stati Uniti d’America. Se chiudete gli occhi vi sembrerà quasi di vedere la sua ombra lontana che cavalca in direzione del sole al tramonto. Oppure forse si tratta semplicemente di Paul Newman.
THE DOORS, “The Doors: Live at the Isle of Wight Festival 1970” (Elektra, 2018)
78/100
Questo concerto registrato all’Isola di Wight in occasione della terza edizione dell’omonimo festival (che fu poi sospeso per essere poi ripreso e organizzato annualmente dal 2002) è non solo l’ultima esibizione di Jim Morrison con i Doors in Europa, ma anche l’ultima registrazione di una performance dal vivo del mitico gruppo rock di Los Angeles e che ha letteralmente dominato le scene musicali alla fine degli anni sessanta e considerato a ragione uno dei gruppi più importanti della storia del rock psichedelico. Il concerto fu registrato il 30 agosto del 1970: erano le due del mattino e i Doors si esibirono davanti a un pubblico di un numero compreso tra le 600.000 e le 700.000 persone. “Morrison Hotel” era uscito il febbraio precedente, ma era già cominciata quella che si ritiene fu la fase discendente per i Doors e in particolare per Jim Morrison, che dopo il concerto del primo marzo del 1969 a Miami era stato processato per atti osceni (avrebbe infatti in tale occasione mostrato i genitali al pubblico, fatto comunque sempre smentito dagli altri componenti della band e il tecnico Vince Treanor.) e liberato su cauzione.
Considerata una performance non indimenticabile, il concerto al festival dell’Isola di Wight fu praticamente l’ultimo prima di Dallas e del crollo definitivo di New Orleans. Seguirà l’allontanamento di Paul A. Rotchild e la pubblicazione di un disco sottovalutato come “L.A. Woman” che invece probabilmente avrebbe potuto significare un nuovo inizio per Jim Morrison, qui protagonista di performance vocali indimenticabili e da grande della musica blues, ma the Lizard King sarebbe deceduto pochi mesi dopo a Parigi.
Il live è stato pubblicato per la prima volta in edizione integrale lo scorso febbraio (alcuni estratti fanno parte del contenuto del documentario di Murray Lerner “Message to Love” pubblicato nel febbraio del 1997). Non sono particolarmente interessato al video: ritengo che un concerto dal vivo vada vissuto personalmente come una esperienza sensoriale completa. Ma le registrazioni audio, per quanto vi sia in giro molto materiale sui Doors, sono sicuramente interessanti e francamente almeno in queste non si riscontra quella “debolezza” richiamata dalle cronache del tempo e che forse si attribuisce a uno stile più dimesso di Jim Morrison sul palco rispetto al passato. Ma c’è ancora grande forza nella sua voce e nel groove psichedelico di un quartetto che nonostante tutto ha continuato a funzionare in una maniera perfetta fino alla fine.
ALL THEM WITCHES, “Lost And Found EP” (Self-Released, 2018)
65/100
“Sleeping Through The War” (New West Records) è sicuramente stato uno dei migliori dischi di musica rock psichedelica del 2017 e il disco della consacrazione per gli All Them Witches, il gruppo di Nashville, Tennessee, composto da Michael Parks Jr, Ben McLeod, Robby Staebler e Allan Van Cleave. Prossimi alla pubblicazione di un nuovo LP in aprile e di un tour in giro per gli USA che tra maggio e giugno li vedrà affiancare Primus e Mastodon, lo scorso 26 febbraio il gruppo ha voluto – secondo una tradizione peraltro storica – diffondere in formato digitale un EP intitolato “Lost And Found” e scaricabile gratuitamente dalla loro pagina Bandcamp.
La pubblicazione contiene solo quattro tracce che costituiscono materiale mai rilasciato prima ma non esattamente “inedito”, trattandosi in pratica di operazioni di recupero, a partire dalla rivisitazione in una dimensione di estasi psichedelica di un super-classico come “Hares on the Mountain”, una canzone oramai entrata nell’immaginario folk tradizionale del mondo anglosassone e secondo la maggioranza delle fonti attribuibile all’irlandese Samuel Lover (1797-1868); un classico blues-rock della fine degli anni sessanta come “Before the Beginning” di Peter Allan Green e contenuta nel terzo LP dei Fleetwood Mac (“Then Play On”, 1969); una versione folk riverberata di “Call Me Star” e il rimiscelamento dub di “Open Passageways”, due pezzi contenuti nel primo LP su New West Records “Dying Surfer Meets His Maker” (2015). Diciamo che questa pubblicazione può benissimo essere considerata come una specie di “aperitivo” in vista della pubblicazione del prossimo LP e di questo tour che sul piano promozionale costituirà per il gruppo una occasione sicuramente molto importante. Allo stesso tempo il disco è anche una specie di tramite tra “Sleeping Through The War” e il prossimo capitolo: la sensazione che deriva dall’ascolto è che anche nel prossimo futuro la band riprenderà quella stessa operazione di sapiente rilettura in una chiave moderna e scissa da ogni forma di devozione vintage, della grande storia del rock-blues psichedelico americano.
WEDGE, “Killing Tongue” (Heavy Psych Sounds Records, 2018)
75/100
Questi ragazzi hanno dentro di sé quello che viene storicamente definito come il sacro fuoco del rock and roll. I Wedge sono un trio acid rock garage provenienti da Berlino, Germania, e punto di forza del roster della label romana Heavy Psych Sounds Records. Il terzetto si è formato nel 2014 ed è composto da Kiryk Drewinski (voce, chitarra, armonica), David Gotz (basso, organo, piano elettrico, mellotron) e Holger “The Holg” Grosser (batteria) e dopo i riconoscimenti e le attenzioni ottenute dopo il primo LP e avere suonato praticamente ovunque nel vecchio continente e anche in compagnia di band come Fu Manchu, Orchid e Pontiak, pubblicano lo scorso febbraio il secondo album in studio intitolato “Killing Tongue” e prodotto da Guy Sternberg, principalmente conosciuto per essere l’uomo dietro i lavori di Maximilian Hecker, musicista con cui chiaramente questi ragazzi condividono solo la provenienza geografica.
Il sound dei Wedge si può definire in qualche maniera derivativo: sicuramente nel sound del terzetto è evidente un certo imprinting che paga devozione all’acid rock degli anni settanta, schemi consolidati e di sicura efficacia, ma che qui pure proposti con una certa devozione non sono privi di originalità e anche grazie all’approccio più garage e grezzo, assumono una certa connotazione easy-listening che rende questo disco un “must” per tutti gli ascoltatori di musica rock al di là di ogni definizione di genere e confine. Le composizioni sono per lo più pezzi di heavy-psichedelia garage caratterizzati da riff di chitarra elettrica sparati a mille all’ora come “Nuthin” oppure “High Head Woman” e dove comunque non manca una certa matrice acid-blues come nel caso di “Push Air” e con arrangiamenti che possono ricordare un certo stile Dead Meadow (“Lucid”, “Who I Am”) e un uso massivo dell’Hammond che riprende i momenti più allucinati dei Doors (“Killing Tongue”). La lunga eco di gruppi fondamentali come Blue Cheer e MC5 si fa sentire in maniera marcata in tutte le canzoni dell’album e anche in costruzioni più armoniose come i sette-otto minuti di “Tired Eyes” oppure “Alibi” che deflagra in una spettacolare esplosione cosmica finale.
Quello che colpisce più di tutto tuttavia è quella natura selvaggia che evoca il fantasma maledetto di Jeffrey Lee Pierce e che è forse la componente magica che più mi ha colpito sin dal primo ascolto di questo disco. Chiaramente consigliatissimo, suggerisco a chi ne abbia la possibilità, di cercare di non mancare l’occasione di vederli dal vivo a inizio aprile quando con otto date in terra italiana i Wedge termineranno il loro tour cominciato il nove gennaio scorso ad Hannover.
OLDEN YOLK, “Olden Yolk” (Trouble In Mind Records, 2018)
65/100
Shane Butler cominciò a lavorare al progetto Olden Yolk già nel 2012 quando era impegnato in tour e in studio di registrazione con i Quilt. La cosa si è poi evoluta con l’aggiunta della vocalist e polistrumentista Caity Shaffer (oggi a pieno titolo co-titolare e elemento fondamentale del progetto) e la pubblicazione di uno split con i Weyes Blood. Ci sono voluti tuttavia altri quattro anni prima che il duo, arruolati il batterista Dan Drohan e il chitarrista Jesse DeFrancesco, si definisse come una vera e propria band, fino alla pubblicazione lo scorso 23 febbraio su Trouble In Mind Records del primo LP eponimo registrato ai Gary’s Electric Studios a New York City da Jarvis Taveniere (Woods) e Robert Aceto.
Il duo si è definito come un gruppo di folk psichedelia “distopica”: caratteristica peculiare del concept sviluppato nel disco sono sonorità che senza eccedere in sperimentalismi, danno luogo a visioni astratte e dimensioni acustiche volutamente ripetitive al fine di divenire in qualche maniera espressive sul piano emozionale. La maggior parte delle composizioni, strutturalmente, si fonda così su arpeggi di chitarra acustica minimali e “andanti” nello stile che del resto era proprio dei Quilt, così come di esperienze pop-psichedeliche tipo Fresh & Onlys, senza trascurare l’orientamento cinematico “americana” degli Holy Motors in una alternanza tra pezzi più acustici in slow-motion come “Verdant” o “Gamblers” oppure le dimensioni lisergiche di “After Us” e brani che hanno quello stesso vibe power-pop Yo La Tengo come “Cut To The Quick”, “Vital Sign” e la conclusiva “Takes Ones To Know One”. Ma i momenti più interessanti e particolari sono probabilmente la composizione pop-psichedelica circolare “Hen’s Teeth”, caratterizzata da arrangiamenti sensibili e gradevoli alterazioni sonore, così come colpiscono come bagliori nel buio le accelerazioni ipnotiche di “Esprit de Corps”, sostenute dalle vibrazioni dell’organo elettrico; fino al tema dreaming di “Aria”, opera di uno dei collaboratori alle fasi di registrazioni del disco (tra cui va menzionato anche il violinista Jake Falby), cioè il polistrumentista John Andrews (Woods, Quilt, The Yawns). In definitiva la sensazione è che per quanto questo duo dimostri di avere un certo stile e una certa vena poetica e che non li fa sicuramente sfigurare in questo disco d’esordio, vi sia del potenziale inespresso e che potrà essere sviluppato solo con una verve maggiore e una più forte carica elettrica. Pertanto il giudizio pure globalmente positivo si accompagna a una certa attesa per il futuro e quello che accadrà: davanti a sé hanno ancora una lunga strada da percorrere.
DOMBOSHAVA, “Bejond Zero” (Drone Rock Records, 2018)
74/100
Nuovo album per Anders Brostrom aka Domboshawa. Dopo la dismissione della sua precedente band (gli Amaxa) e avere intrapreso un viaggio e una arrampicata sul Domboshawa, più di mille metri a poca distanza dalla città di Harare (ex Salisbury) nello Zimbabwe, Brostrom ha avuto una specie di illuminazione mistica e deciso che questa componente magica avrebbe dovuto costituire la principale fonte di ispirazione per la sua musica. Costruito un suo piccolo studio a Hagersten (praticamente un distretto di Stoccolma) ha cominciato a lavorare a della nuova musica registrando sonorità drone psichedeliche e improvvisando jam session acide. Il risultato finora sono state diverse pubblicazione clandestine come “Dark Lights” nel 2016 (Ljudkassett!) e “Minds Electrix” nel 2017 per la Drone Rock Records.
Autodefinitasi come “The Home Of Drone”, l’etichetta britannica di base a Brighton ha chiaramente un occhio di riguardo verso questo tipo di progetti di jam-psichedelia e lo dimostrano pubblicazioni di gruppi come The Band Whose Name Is A Symbol, Dead Sea Apes, Snakes Don’t Belong In Alaska oppure Zofff, Psychic Lemon… Tra questi direi che Domboshawa costituisce una delle realtà più solide e questo nuovo disco intitolato “Bejond Zero” ne è una valida dimostrazione. In buona sostanza composto da tre lunghe tracce di psichedelia drone e acida, il disco mostra comunque al suo interno una certa varietà per quello che riguarda l’approccio al genere, dimostrando quelle che sono le capacità compositive e l’inventiva di un musicista veramente molto interessante. Il disco si apre con “Explorer” che è sicuramente il pezzo diciamo “forte” del terzetto: una sessione heavy-psych di 12 minuti con rimandi allo stile free-form degli Acid Mothers Temple e una marcata impronta kraut-rock. Ma le altre tracce non sono affatto meno interessanti: fondate su un approccio di tipo più meditativo e su una certa spiritualità mistica e sperimentalismi astratti, il suono ha quella certa caratteristica che ha reso peculiare il suono di una band come i White Heaven di Michio Kurihara. Ogni singola nota potrebbe apparire casuale, ma invece queste, messe tutte assieme e lasciate risuonare nello spazio vuoto, lo riempiono dandogli un senso definito come potrebbe essere un cielo pieno di stelle. Composizioni di un carattere elettrico e space-music quasi minimalista, “Rod Oktober” e “Krystal Hands” sono praticamente l’eco di vibrazioni sonore che sono già state suonate molto tempo fa e che arrivano a noi solo adesso da un tempo passato troppo lontano per essere ricordato.
SNAPPED ANKLES, “Come Play Thre Trees” (Leaf Records, 2017)
78/100
Scappati direttamente dal manicomio criminale di Harlech e sfuggiti alla cattura dell’ispettore Bloch, gli Snapped Ankles sono probabilmente una delle band più eccentriche e fuori di testa in circolazione. Il gruppo proviene scena garage-punk dalla East London, cita (diciamo così) William Shakespeare e le loro performance dal vivo (pensate a una specie di mix tra i Goat e i Clinic) sono una specie di happening espressionista e astratto ispirato a rituali primitivi e durante le quali il gruppo indossa abiti sciamanici. Sin dalle prime esibizioni, quando la band costituiva ancora una specie di progetto emrbionale, del resto le esibizioni dal vivo costituivano delle vere e proprie improvvisazioni e durante le quali la componente visiva costituiva una caratteristica centrale, perché queste erano fondate sul taglia-e-cuci di scene di film degli anni sessanta (tra le loro influenze citano la “nouvelle vague” e il cinema di Jean-Luc Godard) combinate a loop e sequenze sintetiche ripetute.
Dal 2017 sono entrati nel roster della Leaf Records che ha pubblicato il singolo “I Want My Minutes Back” e l’EP “The Best Light Is The Last Light” prima dell’album di debutto uscito lo scorso 29 settembre e intitolato “Come Play The Trees”. Uno dei fenomeni più carichi di energia compulsiva e ipnotica nel mondo della psichedelia-pop degli ultimi tempi, “Come Play The Trees” è un vero proprio invito a avventurarsi in questa specie di foresta dove prendere parte al grande “cerchio” in cui gli Snapped Ankles compiono folli rituali e mantra sciamanici ballando come posseduti dallo spirito del vudù in maniera frenetica attorno a delle casse che sparano la loro musica ad alto volume. Una combinazione di sonorità e groove afro-beat e citazionismi di Fela Kuti con la garage-psichedelia di marca Lighting Bolt e la richiamata attitudine post-punk creano una miscela letteralmente esplosiva e che culmina in un sound così ossessivo che fa pensare ai Suicide del compianto Alan Vega e di Martin Rev. Tutte caratteristiche che fanno di questo disco qualche cosa di facile da ascoltare e persino ballabile ma allo stesso tempo “contro” e in definitiva uno di quei dischi che, proprio come nel caso delle produzioni dei Suicide, vanno ascoltati rigorosamente solo indossando gli occhiali da sole.
FAMILIA DE LOBOS, “Familia De Lobos” (Riot Season Records, 2018)
83/100
Una delle scene emergenti più interessanti per quanto riguarda musica neo-psichedelica è quella del continente sudamericano. Negli ultimi anni – in particolare in Cile – attorno alla BYM Records di Santiago si è sviluppato un movimento che ha portato alcune band alla ribalta internazionale (impossibile non menzionare tra le tante il boom dei Follakzoid) e suonare negli USA e in Europa. In questo caso specifico tuttavia spostiamo la nostra attenzione sull’Argentina e sulla gigantesca area metropolitana di Buenos Aires. I Familia De Lobos (“lobo” significa letteralmente “lupo”) sono una band formata nel 2016 da Eric Moreno (voce e chitarra), Charly Cross (chitarra), Maria Anselmo (batteria e percussioni), Andres Merlo (synth), Matias Blanco (percussioni) e Fermin Ugarte (basso). Il primo LP eponimo del gruppo è stato pubblicato lo scorso 19 gennaio scorso su Riot Season Records e in questo caso si può dire che è stato fatto centro al primo colpo.
I Familia De Lobos riprendono forme di psichedelia tipiche degli anni sessanta-settanta (“Mi Amor Salvaje” del resto è la stessa “Wild Love” dei Doors di “Waiting For The Sun”) mescolate al suono di percussioni tipiche della tradizione folkloristica argentina e strumentazioni dell’epoca pre-colombiana come il “bombo leguero”, la “caja bagualera”, “quenas”, “zamponas”, “palo de lluvia”… Se accostabili a alcuni gruppi proprio del roster della BYM Records (i Chicos de Nazca) così come a altre esperienze della scena alternative di Buenos Aires come i Sombrero (menzionerei peraltro anche alcuni episodi dei BJM a metà degli anni novanta), allo stesso tempo l’attitudine neo-psichedelica e drone e sound evocativi di immaginari desertici e ossessioni acide (“Todo Lo Que Brilla”, “El Viento Y La Luz”, “Sangria”), rimandano alle produzioni dei Myrrors da “Arena Negra” fino a “Hasta La Victoria” e alcuni lavori degli Spindrift.
La visione complessiva ci ricollega così al mondo del popolo Mapuche (“Familia De Lobos”, “Conquista Del Desierto”), quelli che gli spagnoli chiamavano “auracanos”, e a quella magia tipicamente sudamericana delle opere di Osvaldo Soriano (1947-1973). Del resto, davanti a un disco che è stato definito come la colonna sonora ideale di uno spaghetti western americano, come si fa allora a non menzionare William Brett Cassidy, “vaquero” e pistolero e arbitro della finale dei Mondiali in Patagonia nel 1942: una figura forse inventata, forse no, ma anche lui “Triste, Solitario Y Final”, come quelle figure leggendarie dei romanzi di letteratura on the road e che in fondo non raccontano altro che delle storie di rock and roll.
(Emiliano D’Aniello)