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Sub Pop, terra di promesse (mantenute) e non più bandiera di flanella piantata per rimarcare il territorio. La storica etichetta di Seattle è cresciuta ed ha iniziato a guardarsi intorno, da molti anni a questa parte. Nonostante abbia ancora in scuderia cavalli di razza in grado di partecipare ai grandi festival garantendo introiti danarosi (Beach House, Afghan Whigs, Father John Misty, ecc), il pallino per quel tipo di sonorità urticante e vitale (le chitarre, i feedback, il rumore NOI non lo abbandoneremo mai) è più viva che mai.
Però, c’è un però, quello che prima era mainstream ora è nicchia, anche piccolina. Ci hanno provato con i LVL UP, un disco Pavement-iano che dal vivo faceva acqua da tutte le parti. I Nirvaniani Strange Wilds con il loro “Subjective Concepts”, che se lo saranno comprati in quindici, quel disco. Poi per carità, resistono i favolosi Metz, che ad inizio carriera sembrano però essersi fossilizzati in un condotto senza via d’uscita. Insomma, le chitarre, non stanno passando un bel momento.
Allora ecco che arrivano i Moaning, tre ragazzi losangelini che rispondono al nome di Pascal Stevenson, Sean Solomon e Andrew McKelvie. Chiamati in teoria ad aggiungere storia e prestigio alla storica etichetta, non fanno altro che timbrare il cartellino del “ci sono anche io”. La loro proposta musicale è un ibrido post punk melodico dalle sfumature shoegaze senza mordente, senza divagazioni, senza oniriche visioni, senza un briciolo di personalizzazione in uno stile peraltro abusato. Dieci canzoni per trentatré minuti di musica. Bellissima e al contempo inutile. Me li andrò di certo a vedere (suoneranno ad aprile di spalla ai Metz, tra l’altro) e spero proprio di tornare a casa convinto di essermi sbagliato. Se così non fosse, piuttosto che aspettarci un nuovo capolavoro targato Sub Pop, dobbiamo aspettare che cambi il mondo.
Perché si sa, i semi che germogliano sono trasportati dal vento, e da quelle parti non si respira proprio una bella aria.
55/100
(Nicola Guerra)