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Dall’adolescenza in poi, quando intendevamo metter su un gruppo c’era questa fase costituente molto creativa nella quale si doveva uscire dal conclave con un nome per la band. In genere erano bei nomi perché non ci vuole poi molto a trovarne di non banali. Ed erano bei nomi anche le volte in cui il conclave finiva più o meno in vacca, tutto sommato. Abbiamo battezzato anche delle cose mai concretamente messe in piedi. Però, ecco, un nome l’avevano. Diciamo che era un atto identificativo importante, specialmente se non sapevi suonare decentemente. Poi c’è chi se ne strasbatte dei nomi ed ecco la storia dei Women.
I Women alla fine degli anni zero sono un gruppo canadese di Calgary. Sono abbastanza promettenti quanto deficitari, appunto, nel coniare nome e titoli. Il primo album si chiama “Women” e viene apprezzato abbastanza in giro. La musica è interessante, forse più noise che post-punk. Però dopo qualche anno (e un secondo disco) succede un casino. Le tensioni latenti esplodono durante un live e loro si pestano praticamente in pubblico come faceva Bud Spencer. La band va in pausa (e ti credo) finché poi finisce la sua corsa a schianto su un fatto tragico: muore nel sonno il chitarrista.
Due dei membri (che a occhio e croce non si erano ancora menati) fanno un nuovo gruppo e lo chiamano Viet Cong. Siamo nel 2013, i due sono Matt Flagel e Mike Wallace e il resto della storia è abbastanza nota: c’è la cassetta che si chiama “Cassette”, l’album intitolato (tu pensa) “Viet Cong” e, appunto, questa scelta di un nome scivoloso che provocherà contestazioni, casini, minacce e la necessità di rinominarsi di nuovo. Rinominarsi parallelamente ad una crescita musicale che intanto macina elementi post-punk insieme ad altri: un filo industrial, dark wave e cose che sanno di pop, sebbene sia pop con gli spigoli. Il nome scelto per ridefinirsi è il mezzo disastro Preoccupations. I fans continueranno a chiamarli Viet Cong, che bello non era ma che, almeno, col tempo ha acquisito un significato di resistenza contro le censure. C’è una deriva visionaria, tra l’altro, in questa cosa dei fans nel far corrispondere alla scritta Preoccupations la pronuncia Viet Cong. Ma del resto se un pirulo ricurvo lo si leggeva Prince, si può accettare anche questa.
Nel 2016 esce il primo disco dei Preoccupations e si chiama “Preoccupations”, per mantenere evidentemente una linea. Per alcuni è tra i migliori dischi di quell’anno. Per altri è un lavoro di maniera che non aggiunge quasi nulla a quanto dissero Joy Division, Bauhaus, Suicide e altre icone. Diciamo che questo secondo disco a nome Preoccupations, in uscita in questi giorni, non devìa prepotentemente dal precedente. Quindi è facile che in giro gli si attribuisca un tasso innovativo al minimo e che susciti quei discorsi che poi deragliano su uno scontro intergenerazionale più di bandiera che di sostanza. In realtà la band canadese, in questo caso, raccoglie una manciata di canzoni epiche e compatte, gli dà un tono di forte omogeneità e trova probabilmente la strada per non suonare anacronistica. E poi, sì, succede che a questo nuovo materiale dia il titolo “New Material”, vabbè.
Otto tracce che sappiamo da dove vengano ma che esprimono un brillante senso di contemporaneità per come declinano i canoni new wave in una chiave relativamente fresca (“Antidote”).
In “New Material” c’è una rimodulazione degli istinti viscerali della band nel formato canzone. Anche della canzone pop che si aggira laddove da tempo non riescono gli Interpol, figuriamoci gli Editors. L’impianto chitarristico accoglie tastiere e drum machine senza rinunciare a un briciolo del suo potenziale espressivo. Il cantato rispetta il mood che conosciamo ma non è mai macchiettistico. Poi, certo, i riferimenti più classici sono in bella mostra: “Doubt” porta dritti alle atmosfere di dischi come “Faith” (oltre che per il titolo) o come “Closer”. “Solace“ è un gol in contropiede: una di quelle canzoni crocevia tra un’estetica dark angusta e lo spalancarsi di una porta, di mille porte. Sarebbe stata bene in apertura dell’album, magari.
Invece “Disarray” sarebbe stata una bomba nel finale. “Disarray” è il flusso che prende il controllo. È l’esempio di quella regola, quella per cui la canzone veramente ispirata la senti dalle prime tre note, da come son legate insieme. È l’instant classic fra i Simple Minds buoni, l’epica degli Ultravox e l’umido di certe sale prove. Ecco, dentro ci saranno venti, trenta, quarant’anni di sale prove raccattate, di riverberi che arrivano in strada, di sogni grossi così, di cartoni delle uova e fondi di Moretti.
83/100
(Marco Bachini)