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BRAINBLOODVOLUME è una rassegna periodica di musica psichedelica che dovrebbe avere carattere quindicinale, ma che qualche volta (tipo questa) può anche richiedere dei tempi tecnici più lunghi.
Ho scelto anche questa volta per voi sette dischi che non costituiscano necessariamente dei capolavori del genere (come si fa a stabilire una cosa del genere del resto, voglio dire, se mi date un disco dei Tame Impala, ad esempio, io lo faccio volare direttamente fuori dalla finestra, rinnovando il mito degli UFO) ma che sono per qualche ragione tra le uscite più interessanti del periodo ultimo. A parte qualche ripescaggio più o meno doveroso.
Mai come questa volta, devo dire, le scelte sono tutte quante relative dei dischi che considero di ottima qualità e che vi invito ad ascoltare a massimo volume e con il vostro cuore e le vostre menti letteralmente aperte a nuove esperienze di carattere emotivo.
Perché del resto l’aspetto emozionale è forse quello più importante ed è l’unica cosa che conta anche se alla fine, io per primo, molto spesso me ne dimentico oppure mi rendo conto di essere incapace di afferrare questa realtà che del resto come tutte le cose più importanti, non è tangibile. Invece che un invito all’ascolto, questo qui è un invito a sentire.
“We’re so glad to see so many of you lovely people here tonight.
We do sincerely hope that you all enjoy the show and please remember people, that no matter who you are and what you do to live, thrive and survive.
There are still some things that make us all the same:
You, me, them, everybody.”
GNOB, “Electric Dream Demon” (Drone Rock Records, 2018)
Ci sono gli GNOD e gli GNOB. I primi sono sicuramente più noti e hanno una lunga storia alle spalle, cominciata nel 2006 ricca di momenti che a questo punto considero indispensabili per gli amanti del genere e che forse proprio lo scorso anno ha raggiunto il punto più alto con la doppia pubblicazione su Rocket Recordings di “Just Say No To The Psycho Right-Wing Capitalist Fascist Industrial Death Machine” e “Temple ov BBV” in collaborazione con i Radar Men From The Moon. Hanno un disco in uscita il prossimo maggio (“Chapel Perilous”) registrato a Eindhoven (proprio a “casa” degli amici RMFTM) e che attendo con una certa attesa.
Qui invece abbiamo gli GNOB, che sono un trio heavy-psych (Nicholas Georgiou, Morten Jorgensen, Ben Kenobi Le Marchant) particolarmente acido proveniente dalla città di Londra e che debuttano su Drone Rock Records con il loro primo LP intitolato “Electric Dream Demon” prodotto e registrato da Wayne Adams al Bear Bites Horse Studio. La scelta del nome potrebbe fare in qualche modo sorridere, del resto la parola “gnob” rimanda anche a espressioni popolari tipo “cazzone” oppure “testa di cazzo”, però poi mettete su il disco e scoprite che questo terzetto ha tutte le carte in regola per entrare a far parte dei vostri ascolti più allucinati e potenti di questo periodo.
Il disco è una specie di monolite di carbonio levigato da accelerazioni noise (“Electric Dream Demon”), ossessioni kraut-rock e kosmische musik (“Dancing Plant”, “Snake Charmer”), acidità MC5 e Blue Cheer (“Freedom Forty-Five”, “Gee in the Raagini”) e vigorose sciabolate heavy-psych. Metteteci qua e là vocalismi garage posseduti dal demonio e qualche rimando a sonorità orientali che non guastano mai e il gioco è fatto: prendete e godetene tutti.
77/100
DUNGEN & WOODS, “Myths 003” (Mexican Summer, 2018)
Il Marfa Myths è un festival organizzato ogni anno dal 2014 in Texas dalla Mexican Summer di Brooklyn con la fondazione di arte contemporanea Ballroom Marfa. Ogni edizione del festival è accompagnata dalla simpatica iniziativa dalla pubblicazione via Mexican Summer (ovviamente) di un disco registrato durante l’edizione precedente.
Dopo la pubblicazione dei primi due capitoli (Connan Mockasin/Devonté Hynes – Ariel Pink/Weyes Blood) questa volta tocca a due band storiche del genere come Dungen e Woods che nel 2017 si esibirono congiuntamente dando luogo a una performance unica con risultati molto interessanti: “Loop” è una session di psichedelia con sonorità ripetitive e caratterizzate da un certo groove afro-beat; “Turn Around” è una tipica ballad nello stile dei Woods, ma da “Marfa Sunset” in poi ogni cosa è una sorpresa. Sonorità psichedeliche estatiche minimali (“Jag Ville Va Kvar”) e ambientazioni tropicali che rimandano a tramonti west-coast (“Just For The Taste”) e sfumature jazz misteriose (“Saint George”) finiscono con l’immergerci giù fin dentro le profondità della foresta amazzonica (“Morning Myth”).
Solo apparentemente eterogeneo, “Myths 003” è veramente un bel disco e che riabilita entrambe le band dopo le ultime uscite effettivamente un po’ deludenti. Per il resto a quanto pare dovremo tenere sott’occhio nell’edizione 2018 – che si terrà tra il 12 e il 15 aprile – Cate Le Bon e Bradford Cox (Deerhunter, Atlas Sound), la cui performance sarà oggetto di pubblicazione l’anno prossimo. Ma questo sarà solo uno tanti aspetti interessanti di un festival che vedrà tra gli altri esibirsi Amen Dunes, Equiknoxx, Wire, Ryley Walker e Allah-las e l’artista Jesse Moretti e che idealmente dedicato al sempre più centrale tema del riscaldamento globale e i cambiamenti climatici, fondato sulle idee contenute nel libro “Hyperobjects: Philosophy and Ecology After the End of the World” (2013) di Tymothy Morton, è concepito sulla interazione con oggetti e esperienze anche sensoriali di tipo speculativo tese a aumentare la nostra percezione e di conseguenza la nostra attenzione e sensibilità alla causa. Un tentativo e una esperienza tanto interessante quanto ambiziosa, ma di questo tipo di iniziative (da ogni punto di vista) in fondo non ce ne sono mai abbastanza e quindi va benissimo così.
74/100
BERNARD ESTARDY, “Space Oddities (1970-1982)” (Born Bad Records, 2018)
Negli ultimi tempi sto tenendo sott’occhio questa etichetta d’oltralpe, la Born Bad Records di Romainville, che a parte pubblicare un sacco di artisti e gruppi interessanti del panorama psichedelico contemporaneo francese (Forever Pavot, J.C. Satàn, Marietta…) si disimpegna in preziosissime opere di ripescaggio come quella delle b-side di Pierre Vassiliu e la recente pubblicazione delle “Space Oddities” di Bernard Estardy (1939-2006), musicista, produttore e arrangiatore, collaboratore tra gli altri di Nino Ferrer e Nancy Halloway e il chitarrista Georges Chatelain, con il quale assieme a Janine Bisson (sorella dello stesso Chatelain) nel 1966 fondò lo studio di registrazione CBE (che oggi è diretto da sua figlia Julie).
Bernard Estardy era una specie di genio. Universalmente riconosciuto come il più grande producer francese dagli anni settanta e fino alla fine degli anni ottanta (Gérard Manset, Claude Francois, Francoise Hardy, Michel Sardou…) Bernard aveva una personalità eccentrica, particolare: grande studioso di matematica e interessato all’occultismo, era alto più di due metri e aveva un carattere timido, nevrotico: era un grande musicista e un grande arrangiatore, ma allo stesso tempo era un perfezionista che preferiva lavorare da solo o dirigere le cose dalla sua postazione. Fu un tecnico e anche un grande sperimentatore, che ricercava nella musica delle risposte che andassero al di là del semplice intrattenimento e paradossalmente il contenuto magico e surreale di queste composizioni psichedeliche minimaliste e d’avanguardia sta proprio nel fatto che furono le uniche in cui Estardy fu semplicemente se stesso e diede libero sfogo alla sua grande creatività.
Slegato da ogni contesto storico del pop sperimentale psichedelico degli anni sessanta, questo disco costituisce effettivamente una specie di oggetto alieno dove sono mescolati assieme avant-jazz, musica cosmica e anticipazioni del minimalismo pop Yellow Magic Orchestra: il risultato è una specie di grande caos cosmico e universale ma dove come in tutte le cose, c’è una forza che dall’alto muove i fili e fa funzionare le cose. In questo caso si tratta di Bernard Estardy, “Le Baron”, il musicista che (ipse dixit) “trasformava la merda in oro”. Chapeau.
80/100
THE BAND WHOSE NAME IS A SYMBOL, “Codocil” (Not on label, 2018)
“Codocil” è una specie di appendice alla pubblicazione dell’ultimo LP in studio “Droneverdose” pubblicato a inizio anno su Cardinal Fuzz. The Band Whose Name Is A Symbol, il sestetto di Ottawa, Ontario raccoglie qui otto tracce inedite e mai pubblicate prima. Tra queste una (“In Space We Trust”) era stata registrata proprio per essere pubblicata su “Droneverdose”, ma poi – diciamo così – tagliata per problemi di “spazio” (del resto si tratta di una bella cavalcata kraut-rock dalla durata di oltre dieci minuti). Le altre sono in buona sostanza estratti di sessioni di jam-psichedelia registrate in un arco di tempo che va dal 2011 fino allo scorso anno nello studio allestito presso il Birdman Sound, il negozio di dischi di proprietà del batterista John Westhaver, una specie di “palestra” e che poi sarebbe la stessa egida sotto la quale sono state pubblicate le prime registrazioni del gruppo.
Sicuramente uno dei temi più dibattuti adesso che siamo con tutti e due i piedi nell’epoca della musica liquida, riguarda quella che secondo molti sarebbe la eccessiva prolificità di alcuni gruppi. Oppure la tendenza a pubblicare e/o divulgare praticamente ogni materiale registrato in studio oppure dal vivo o semplice materiale demo. Autorevoli “barbuti” della stampa musicale ufficiale si sono più volte espressi contro questo fenomeno, che considerano deleterio e che secondo loro sarebbe un altro duro colpo al mondo della musica, ma chiaramente la penso in maniera diametralmente opposta. A parte che essere per la libertà di espressione nel senso più ampio possibile (a cosa serve la musica rock altrimenti), non è forse vero che la musica psichedelica in particolare e secondo esperienze nord-europee nasce proprio su dei presupposti sperimentali e “jam”, registrazioni clandestine, dischi che costituiscono oggetti di culto, forgiati a mano, quasi fossero il disco di Festo ritrovato nel 1908 sull’Isola di Creta da Luigi Pernier e Federico Halbherr.
E allora quello che conta sono i contenuti e quelli di queste sessioni di jam psichedelia sono veramente buoni e secondo me confermano il livello qualitativo molto alto dei TBWNIAS. Per lo più si tratta di lunghe composizioni kraut-rock infette di vibrazioni drone e chitarre acide nello stile Hawkind, una sezione ritmica vigorosa e ripetitivo fino a raggiungere vette di ipnotismo; tracce che si arricchiscono con il prezioso contorno di strumentazioni meno solite come sassofono oppure violino (semplicemente spettacolare la struttura compositiva di “Space 18”) e che alla fine esplodono in quella lucentezza e illuminazioni Brian Jones nel villaggio di Jajouka in Marocco tra sessioni psichedeliche che si compiono in una specie di rituale religioso antico come quella costruzione mai terminata della Torre di Babele. Biblico.
78/100
LIFE EDUCATION, “Beyond The Red Waste” (Cruel Nature Records, 2018)
Life Education è praticamente uno dei tanti progetti di Patrick R. Park. Anche conosciuto come Kosmonaut, il suo “moniker” principale, Park vive negli USA e più precisamente nella città di Denver, Colorado, musicista particolarmente prolifico, devoto alla Berlin school psichedelica e dedito alla sperimentazione in ogni branca possibile di una certa kosmische musik dai caratteri ossessivi e dove regna imperioso il tipico motorik 4/4, che qui costituisce più una vera e propria forma concettuale, uno schema da rispettare anche se attualizzato secondo dei canoni estetici e strumentali differenti da quelli tradizionali e dove la batteria viene sostenuta da loop e drum-station che ne rafforzano le sfumature industrial o comunque post-moderne.
Fare ordine nelle sue diverse produzioni è difficile, anche perché molte di queste costituiscono oggetto di culto per pochi fortunati ammiratori, però questa qui ultima nello specifico è relativamente meno difficile da recuperare, dato che è stata oggetto di pubblicazione su cassetta dalla Cruel Nature Records di Newcastle Upon Tyne, UK e contemporaneamente resa ovviamente disponibile in formato digitale. “Beyond The Red Waste”, sebbene vi sia poco hype attorno al nome di Patrick R. Park, si rivela un disco molto più che interessante: nel complesso meno “cosmico” rispetto ai lavori rilasciati a nome Kosmonaut (sebbene questa componente sia comunque presente nel disco, vedi per esempio “2086”), il disco si produce in onde sonore e lunghi riverberi e eco che si sovrappongono l’un l’altro in composizioni avvolgenti e ritmate a partire dalla open-track “Lifer’s End” al drone di “Spacecult Communion” (che ricorda il sound dei primi BJM oppure degli Imajinary Friends) oppure la più oscura “Psychic Yeoman”, i loop post-industrial in slow motion di “War Horse”, il minimalismo di “Cost of Groove” e le particolarissime dissonanze “glitch” di “PTSD” e “Dagger Control”.
Probabilmente non si grida al miracolo e qualcuno più bacchettone potrebbe sostenere si tratti di un lavoro forse troppo “artigianale”, ma questo non mi sembra un grosso limite e semmai un punto a favore di un disco che ha quantomeno il grande merito di essere originale e questo diciamo che oggi è sicuramente qualche cosa di molto difficile da riscontrare tra tante anche buone produzioni discografiche.
75/100
FIREFRIEND, “Sulfur” (Little Cloud Records, 2018)
Colpaccio della Little Cloud Records di Portland, Oregon che si aggiudica (diciamo così) la pubblicazione di questo LP dei Firefriend, band di San Paolo, Brasile e definita nelle stesse note di accompagnamento al disco come “una delle città più grandi, sporche e violente del mondo”. Diciamo che più o meno è la stessa definizione che darei alla città dove sono nato e dove sono cresciuto e dove vivo attualmente e chi lo sa se non sia anche questa cosa che mi avvicini in qualche modo ai contenuti della musica e dei testi della band composta da Yury Hermuche, Julia Grassetti e il batterista C. Amaral e che di conseguenza mi abbia portato ad amare incodizionatamente questo disco.
Autoproclamatisi una vera e propria “bestia a tre teste” il loro disco, “Sulfur”, è uscito il 6 aprile ed è sicuramente per quanto mi riguarda una delle novità nel genere neo-psichedelico più convincenti e anche tra quelle più accattivanti e che potrebbero richiamare una certa attenzione. I contenuti concettuali del disco sono calati dentro la realtà quotidiana che li circonda, una dimensione difficile e rappresentata in bilico tra sfumature noir e letteratura hard-boiled e che appare essere come densa e assorbire allo stesso tempo tutto quello che ci sta dentro. Una realtà oscena e dalla quale questa musica garage psichedelico (“Afterhours”) si dipinge inevitabilmente di trame oscure e ricche di sfumature (“Cosmic Background Radiation”) oppure taglianti come lame di un rasoio (“Solipsism”…), prima di calare in maniera ipnotica l’ascoltatore in uno stato estatico tra quadri drone tridimensionali (“Pacific Trash Vortex”), yelling noise di derivazione Yoko Ono (“Sulfur”) e onde sonore Spacemen 3 (“Cosmic Background Radiation”), allentando così quella tensione e quello stato di violenza richiamato, mutandolo in uno stato di opposizione e allo stesso tempo acquiescenza, autoconsapevolezza e perdita del controllo: una esperienza amniotica di orgasmo collettivo universale (vedasi la copertina del disco) che è alla fine la più grande rivoluzione possibile.
83/100
FLOWERS MUST DIE, “Kompost” (Rocket Recordings, 2017)
Sicuramente uno dei dischi di space music più potenti dell’anno 2017, praticamente un anno fa, e che ripropongo perché sarebbe semplicemente delittuoso esserselo lasciati sfuggire e anche perché a quanto pare il prossimo 30 aprile dovrebbe uscire il suo seguito. Siamo di nuovo in Svezia, che la psichedelia del nostro continente ha scoperto finalmente essere la vera patria dello sperimentalismo più estremo già a partire dalla fine degli anni sessanta. Amici dei Goat, ma meno devoti a culti esoterici e stregoneria e più dentro quella che gli amici germanici definiscono come “kosmische musik”, discendenti diretti per linea sanguigna di Trad, Gras e Stenar e Algarnas Tradgard, coevi della scena neo-psichedelica scandinava e in particolare svedese, che viene cullata e coccolata e “spammata” a tutti i livelli sia dalla Rocket Recordings e in particolar modo dalla sempre più spericolata Fuzz Club Records, i Flowers Must Die sono un quintetto proveniente da Linkoping e che da praticamente dieci anni si sussegue in pubblicazioni che purtroppo non hanno mai ottenuto il giusto richiamo e la grande attenzione che avrebbero meritato.
Fino a “Kompost” appunto, che quegli stessi già richiamati “barbuti” hanno voluto definire come “l’ennesimo disco di neo-psichedelia” (come se ne avessimo abbastanza) e che invece è sicuramente ennesimo ma anche uno dei migliori usciti negli ultimi anni. Il disco si apre subito forte con “Kalla Till Ovisshet”, una odissea spaziale psichedelica carica di vigore e con quel furore tipicamente NEU! che appare filtrato attraverso il ruotare di una lavatrice; “Hit” si pone in una posizione intermedia tra space music e visioni tzigane con il suono del violino, tipico proprio dei momenti psichedelici tradizionali, che infrange onde droniche e un cantato che può ricordare una Nico posseduta dalle divinità nordiche; il free-jazz psichedelico destrutturato e ipnotico-ossessivo di “After Gong”; la new age di “Why?”; le sciabolate acide con motorik 4/4 di “Hej Da”; il minimalismo beat con riverberi di onde sonore Spacemen 3 di “Don’t You Leave Me Now”; lo sciamanesimo di “Hey, Shut Up” e il progressive sperimentale di “Svens Song” sono una successione di pezzi che propongono l’intero campionario del genere, pagando pegno alla tradizione ma rinnovandola nel segno di una certa freschezza.
Sulla copertina del disco, bellissima, mi dicono che campeggia fiera una grossa aquila, ma io ci vedo invece un gigantesco grosso gallo cedrone che si bea ai raggi del sole sulle cime delle alture della Scandinavia in quei pochi periodi assolati. Se invece si tratta veramente di un’aquila – invece che di un gallo cedrone, un grosso gallo cedrone da battaglia, come quelli lì di Pablo – allora evidentemente il disco ha fatto effetto e sono sotto effetto di allucinogeni.
80/100
(Emiliano D’Aniello)