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Entro nella sala in conclamato ritardo, mentre Erlend Øye sta già giungendo alla fine della prima canzone (non è mai una buona idea cenare in Santeria prima di un concerto).
Il posto è pieno e i biglietti esauriti: Erlend è da solo sul palco con la sua chitarra, vestito con una palette di colori così nordicamente pastello che sembra uscito da un film di Wes Anderson. Suona sotto l’occhio di bue con una timida calma, composto, educatamente discreto, esibendosi in qualche pezzo del suo gruppo The Whitest Boy Alive, progetto berlinese accantonato nel 2014.
Attacca una cover lenta di “Heaven Knows I’m Miserable Now” degli Smiths notevole, poi finalmente viene dato un senso agli altri tre microfoni che stanno sul palco attorno a lui: si ferma, racconta del suo trasferimento ad Ortigia nel 2012, di un suo tour in Sud America in cui ha provato senza successo a coinvolgere altri artisti sul palco (ottenendo solo che fossero presenti come pubblico), della sua necessità di trovare della buona compagnia alla sua musica; è così che chiama il primo ospite della sua band per la serata, Stefano Ortisi, che lo accompagna al piano. Mano a mano si aggiungono gli altri fortunati musicisti: Marco Castelli prima, ed infine Luigi Orofino.
A vederli insieme sembrano un gruppo di ragazzi un po’ nerd (consentitemelo) assemblato leggermente a caso: sono buffi a vedersi, il frontman composto e impeccabile (maglioncino salmone e camicia, per farvi un’idea) a fianco del chitarrista con camicia hawaiana, sottilmente impacciati nei primi pezzi tutti assieme. Poi, sorpresa della serata, il concerto viene sospeso per una presunta emergenza che richiede l’immediata evacuazione del locale (a tutt’oggi chi c’era si chiede chi sia stato a fumare nel bagno, unica spiegazione possibile).
Una decina di minuti che servono per risvegliare un po’ tutti, pubblico e musicisti: rientriamo di corsa e dopo una breve attesa in cui, nel frattempo, la temperatura è riuscita a salire di almeno dieci gradi, eccoli ritornare sul palco: Erlend si denuda col fare di chi sa che è stato molto bravo a farsi credere a good boy e, rimanendo solamente con un’azzurrina maglietta della salute, inizia a non nascondere più il piacere che gli dà lo stare sul palco. Dalla ripresa del concerto mi sono trovata di fronte un’escalation di genuina mediterraneità da parte del cantante dei Kings of Convenience, che non ha fatto assolutamente niente per celare l’amore che un norvegese, trasferendosi di colpo in Sicilia, può provare per l’Italia. Metamorfico, Erlend Øye non è più il ragazzo strano che balla scompostamente nel videoclip di “I’d Rather Dance With You”, ma è un uomo che scherza e ride di se stesso cantando e ballando canzoni d’amore che non gli hanno fatto conquistare nessuna ragazza, che nella sua calma siciliana ha trovato una parte di sé che andava scoperta: “Bad Guy Now”, cerca di dirci, o forse solo una nuova consapevolezza di come prendere la vita senza che diventi un melodramma.
Eccolo, infatti, seduto in un angolo a battere le mani entusiasta come un bambino, mentre lascia che i suoi accompagnatori diventino i protagonisti del palco, con un trio di performance che, devo dire la verità, han riempito la sala anche senza Erlend: ballate siciliane con influenze brasiliane han tenuto banco benissimo in sua assenza, facendo apprezzare al pubblico la parte puramente italiana della serata.
Immancabile “La Prima Estate” – con fortissimi richiami ad un altro gruppo adottato dall’Italia, i Selton – per mantenere l’atmosfera estiva da spiaggia, birra e chitarra in riva al mare, nonché le amate cover di successi italiani come “Estate” di Bruno Martino e “Una Ragazza In Due” de I Giganti, canticchiate spensieratamente da tutto il pubblico.
Una serata decisamente piacevole, quella che ha saputo creare il cantante norvegese in Santeria, intrisa di quell’innocente e puro innamoramento per un Paese che solo uno straniero (ma forse non più così tanto tale) può esprimere tanto teneramente in musica.
Chè pensandoci, ha decisamente ragione mia sorella, quando dice che Erlend Øye fa la vita che tutti vorremmo: chi avrebbe mai il coraggio di dire il contrario.
foto e testi di Chiara Toso