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Balla uomo bianco! Molla quella IPA sgasata sul bancone, togliti quella espressione da finto maudìt dalla faccia e buttati nella mischia!
La società occidentale ha un problema con il ritmo. Io non conosco il perchè, se sia una ragione culturale, economica o politica. Il movimento, quello primordialmente fisico ed incontrollato, è da sempre nemico del ‘Sistema’; in questo stesso paese 70 anni fa anche lo swing era osteggiato, in quanto “musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide” ed ostacolo, in virtù della sua natura ‘sincopata’ e libertaria, degli obblighi morali e sociali della gioventù fascista. Non che la situazione cambi di molto col regime democratico: solo una ventina di anni dopo, durante le indagini relative al ‘Caso Montesi’, il pubblico processo da parte degli organi di stampa venne riservato al grande Piero Piccioni, figlio di parlamentare DC, la cui professione di ‘compositore jazzista’ veniva considerata abbastanza per dedurre che potesse aver ucciso la giovane Wilma Montesi.
O per usare qualche citazione spiccia di filosofia, la mia stessa tesi veniva in qualche modo portata avanti un secolo fa da Friederich Nietzsche ne ‘La nascita della tragedia’, in cui esplicava come i riti spettacolari dell’antica grecia fossero stati sublimati in un format quadrato e ‘apollineo’, in contrapposizione alla loro origine fisica, debordante, ‘dionisiaca’. Non vi ricorda, chessò, la parabola del rap americano, da voce rabbiosa di una minoranza costantemente umiliata ad un branco di scimpanzè da circo tenuti buoni a sushi e catene d’oro?
Insomma, il ‘Sistema’ usa tutte le sue armi di distrazione per tenerci quadrati, cinici, ‘apollinei’. Teniamolo a mente che ci servirà poi. Dopo questa necessaria introduzione cominciamo a parlare del disco.
Gli Indianizer sono un gruppo italiano, anche se non sembra. Il loro LP di debutto, “Neon Hawaii”, usciva nel 2015 ed era un concentrato di esperienze orientaliste e sudamericane con un LSD-filter che faceva alzare più di un sopracciglio alla notizia dell’origine torinese del complessino. I loro concerti, di cui sono stato un fortunato spettatore, un delirio di ritmi esotici, melodie da sciogliere ogni neurone ancora in funzione, colori e paesaggi lontani. Una festa liberatoria, in cui il semplicissimo gesto di passare le percussioni al pubblico perchè vengano suonato è un atto ideologico ben preciso: non c’è davvero un palcoscenico, un ‘noi’ ed un ‘voi’; un live degli Indianizer è un rito collettivo in cui fondersi nell’atto catartico e sovversivo di un ballo sgangherato, davvero ‘dionisiaco’.
Il nuovissimo “Zenith”, uscito il 27 Marzo per Musica Altra/Edison Box, porta avanti questo stesso discorso riuscendo ad intercettare un sound più sicuro e personale, con molte più sfumature ‘dream’ rispetto all’esordio. Gli otto pezzi contenuti nel dischetto seguono un concetto tanto semplice quanto importante: 40 minuti di jam session libere, ritmiche ossessive e testi che passano dall’inglese allo spagnolo ad una lingua inventata, tutto lascia intendere una cosa. Liberatevi del vostro bisogno di comprensione, gli Indianizer ci si godono e basta. Non c’è comunicabilità, c’è immediatezza. Non quella superficiale ed effimera alla quale la cultura generalista ci ha abituati sempre di più, ma della perdita dell’Io individuale per ricongiungersi in un’atto fisico immediato, grazie ad un uso consapevole e non superficiale della psichedelia, come invece viene propinata in centinaia di versioni light da tanti colleghi del gruppo torinese.
La musica, le atmosfere, rimandano anche loro ad una confusione stilistica che confusione non è, semmai ricerca della catarsi in un viaggio spirituale in cui suoni gitani, sitar, cumbia e caraibici sono dei mezzi per far evadere l’uomo bianco con la IPA dell’incipit dalla sua bolla in cui le danze sfrenate ed il senso del ritmo non esistono. Non a caso quindi i paesaggi non sono quelli della Padania o delle Dolomiti, ma distanti almeno un continente, un piccolo trucco per dimenticarci per un attimo chi siamo ed abbandonarci a quell’istinto dionisiaco di cui abbiamo bisogno per non diventare zombie urbani.
Esserci, ballare fuori dagli schemi alla faccia degli intellettuali stantii da salotto, delle logiche del lavoro, della famiglia, è un atto veramente sovversivo. In tempi non lontani in cui era ancora permesso di parlare di musica come un qualcosa oltre l’entertainment, forse si sarebbe detto “un atto di riappropriazione di sé”. Per questo un bel disco come “Zenith” acquista una valenza ancora più forte. Correte ad ascoltarlo, segnatevi le date dei live, sentitevi per circa un’oretta dei cretini. Sentitevi, per circa un’oretta, vivi.
78/100
(Matteo Mannocci)