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Il 28 aprile 2008 veniva pubblicato “Third”, il ritorno dei Portishead dopo 11 anni di silenzio. Un album così importante che dominò tutte le classifiche di fine anno di riviste e webzine. Ovviamente, pure i Kalporz Awards. Celebriamo dunque il decennale di un disco fondamentale con tre interventi odierni (qui invece potete recuperare la recensione dell’epoca).
Il problema è il seguente: i tempi della storia, dell’esistenza, e in fondo anche della musica, sono molti e raramente risultano lineari. “Third” rappresenta uno di quei casi in cui i tempi si moltiplicano, si sovrappongono e si intersecano dando luogo a un intreccio difficile da giudicare.
Non perché nel 2008 i Portishead fossero ormai inattuali, e neppure perché fossero, come spesso fastidiosamente si dice, “troppo avanti”, nel 1994. I Portishead del 1994, o 1997, e del 2008 non sono stati evidentemente la stessa cosa. Nessuna anticipazione (i precursori), ma neppure reale evoluzione. Nel flusso di un percorso di estrema coerenza sono stati in grado di rileggere le stesse esigenze autoriali e simili strutture sonore variando colori, dinamiche, strumentazione: dall’impasto caldo-freddo tipico del trip-hop anni ’90, dance e jazz, lounge e tradizione dei soundsystem inglesi, fino al particolare cantautorato elettronico della fine dei duemila. Comune la capacità di conferire respiro, anche live, e piena maturità compositiva a un genere, o a un’area, naturalmente tendente alla freddezza, anche nelle sue forme più impegnate (i Massive Attack, tipicamente).
Non è semplice dunque dire se abbiano insegnato qualcosa a qualcuno o quanto “Third” risultasse un album episodico nel 2008. Restano certamente due cose: una poetica, nel tono e nello stile, precisa, consolidata e personale, e una concezione della vita artistica come impegno rigoroso, nella parsimonia delle pubblicazioni e nella gelosia per l’autonomia di un percorso. A unirle – come la grande P che appare alle loro spalle durante i concerti e trasfigurata nelle copertine dei loro album – la continuità di una cifra e l’unità di una biografia artistica che possono permettersi dieci anni di pausa.
(Francesco Marchesi)
Avventurarsi dentro “Third” ancora oggi, a distanza di 10 anni, è come entrare in un labirinto. Niente è come sembra. Nulla è rassicurante. Il disorientarsi è la parola d’ordine, il procedere con circospezione necessità.
Quando tutti li davano per spacciati, una band definitivamente relegata agli anni ’90, i Portishead, come un ragno che tesse pazientemente la propria tela, hanno saputo dare un’impronta estremamente definita (e obliqua) a quel 2008 che in tutto e per tutto parlava di loro. Mi capitò di andare a NY nel maggio, e “Third” era dappertutto: nelle radio, nelle vetrine dei negozi di dischi, e la “P” di copertina pure disegnata sulle strade e sui marciapiedi. Irradiava l’aria. Si espandeva creando oscurità, più che luce.
Un album che è come se racchiuda la storia di Caino, e quindi la nostra storia. Il Caronte che ci accompagna in questo viaggio è la voce di Beth Gibbons, come sempre splendidamente malinconica e lanciata in interpretazioni memorabili (“The Rip”).
La particolarità di “Third” è che si tratta di un figlio senza eredi, un unicuum non replicato né dai Portishead né da altri. Nessuno ne ha continuato il discorso. Troppo difficile, troppo pesante, un fardello ingombrante. E ci siamo trovati così, dopo dieci anni, in quest’epoca di estetica dominante dimenticandoci delle domande che “Third” ci poneva. Ma quelle domande ritornano sempre, che si voglia oppure no.
(Paolo Bardelli)
Uno dei problemi più comuni per le band di una certa influenza che scelgono di fermarsi si manifesta quando decidono di rimettersi assieme. Nella maggior parte dei casi si finisce per suonare simili alle decine di progetti che vi ispirano. In pochissimi altri casi, si riesce a lasciare ancora il segno. I Portishead, con questo album, che arriva a poco più di un decennio da “Portishead”, secondo capolavoro dopo lo scioccante esordio “Dummy”, riescono nell’impresa, prima di fermarsi nuovamente a tempo più o meno indeterminato.
Il segreto di Geoff Barrow, Beth Gibbons e Adrian Utley deriva forse dalla volontà di distaccarsi senza troppe remore dal peculiare trip-hop che insieme ai Massive Attack hanno codificato e sdoganato in maniera irreversibile. Così nel terzo album della band di Bristoli prevalgono scenari psichedelici, kraut, elettronica analogica da soundtrack sci-fi, i silenzi, gli spazi, i chiaroscuri, in un continuo rincorrersi di spettri noir e sfoghi dreamy.
Al centro la voce algida e aliena di una delle interpreti contemporanee più rappresentative e inimitabili.
(Piero Merola)