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Ogni volta che è in arrivo un disco dei Beach House incombe il solito timore, che anche loro in fondo siano umani e che prima o poi l’ispirazione si esaurirà. Dal disco omonimo d’esordio, passando per il cruciale trittico “Devotion” – “Teen Dream” – “Bloom”, l’oscuro e a tratti imperscrutabile duo ha costruito un percorso personale, coerente e quasi sempre convincente, con una formula immediatamente identificabile e canzoni che resteranno scolpite nella memoria di questo inizio secolo musicalmente confuso e volatile.
Anche nel 2015, con l’uscita di due album a distanza ravvicinata, “Depression Cherry” e “Thank Your Lucky Star” le fatali atmosfere dreamy dei Beach House si sono arricchite di nuovi particolari allontanandosi, soprattutto nel secondo dal respiro luminoso, a tratti pop, liberatorio e “ottimista” di “Bloom”, l’album della meritata esplosione planetaria.
Il settimo album è composto da undici tracce, selezionate dopo un’iniziale raccolta di 77 brani incisi. Inizialmente aveva come numero di serie “777”, e per forza di cosa è stato alla fine è intitolato “7”.
In fase di produzione il duo di Baltimora accantona momentaneamente la collaborazione con chi li aveva sempre seguiti da “Teen Dream” in poi, il navigato alchimista del sound Brooklyn 2000s, Chris Coady (Yeah Yeah Yeahs, Grizzly Bear, Tv On The Radio), per accogliere in studio una delle icone della scena psichedelica made in UK, Peter Kember aka Sonic Boom degli Spacemen 3, insieme al britannico Alan Moulder al mix (Swervedriver, Nine Inch Nails, Ride, The Jesus & Mary Chain, Curve). Con il navigato e allucinato produttore (di recente tra i credits di MGMT e Panda Bear) Alex e Victoria si prendono tutto il tempo necessario per dare seguito a quell’accoppiata di album partoriti, come da loro stessi ammesso, con un processo di composizione rapidissimo, fatto di intense jam e prese dirette.
La gestazione di “7” dura praticamente un anno con cinque sessioni tra il loro home studio di Baltimora, il Carriage House di Stamford e il Palmetto di Los Angeles e senza quelle inibizioni e limitazioni spesso legate alla riproducibilità sul palco dei loro brani. Non manca quella tendenza alla sottrazione già evidente nel precedente disco, così in “7” si possono ascoltare dei brani dove l’inconfondibile chitarra di Scally si fa da parte e altri dove invece sono le tastiere a perdersi tra eterei strati di delay e riverberi, di chiara eredità dream pop/shoegaze.
Il risultato di questa recuperata libertà compositiva, come si è intuito dai quattro singoli che hanno anticipato “7”, è piuttosto evidente. “Lemon Glow”, primo estratto e più tradizionalmente Beach House, rapisce a primo ascolto pur nell’asperità delle sue sonorità. “Dive” prima di quell’inebriante esplosione shoegaze suona come i Cocteau Twins reinterpreterebbero le drogate liturgie di Spacemen 3 e Spiritualized. “Dark Spring” inizia come uno di quei brani che gli Arcade Fire non riescono più a scrivere da mezzo decennio, per poi avventurarsi in nostalgici e avvolgenti estasi da rivisitazione contemporanea dei My Bloody Valentine. In “7”, soprattutto a livello vocale, si sente molto l’eredità degli Slowdive (“Pay No Mind”, “Woo”), un’altra delle band che insieme ai Mazzy Star, ha da sempre aleggiato nel panorama di influenze dei due, ma ci sono anche dei brani come il quarto estratto “Black Car”, un’alienata mini-suite psichedelica adagiata su visioni sintetiche, che sfuggono ad analogie con gli scenari abituali. Qualcuno potrebbe addirittura ripescare gli Air non solo in “L’Inconnue” per la scelta del francese come lingua), ma anche nella ballad vagamente démodé “Lose Your Smile”.
“Drunk In L.A.”, un lungo brivido lungo la schiena, suona già come quei grandi classici targati Beach House e lascia per l’ennesima volta a bocca aperta per una vena che resiste agli effetti del tempo. Come dimostra anche “Girl Of The Year”, uno di quei brani che potrebbe suonare come già sentito, ma assume una luce diversa, in questo spettro sonoro ricco ed iper-espanso soprattutto nei momenti più lenti e introspettivi.
“7” annichilisce gradevolmente i sensi fino ai sette minuti (esatti, e torna il motivo del “sette”) di “Last Ride”, una liturgia sofferta e incalzante scritta al piano che si avviluppa come altri brani in un vortice di echi e distorsioni dove la fulgida voce di Victoria sembra quasi voler svanire ed evaporare.
Anche questa volta, insomma, possiamo tirare un sospiro di sollievo. Grazie di tutto, Beach House.
85/100