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Giornata densa di visioni, quella odierna. Mentre un nuvolone nero in stile puramente fantozziano ha ripetutamente minacciato il popolo degli accreditati – finora preferendo non infierire, e gliene siamo tutti grati – le proiezioni hanno definitivamente iniziato a entrare nel vivo. La mattinata si è aperta con Leto, vale a dire Summer, il nuovo parto creativo del regista russo Kirill Serebrennikov, che non ha potuto raggiungere la Croisette visto che si trova agli arresti domiciliari in quel di Mosca. Al di là di ciò – l’accusa mossa dallo Stato contro Serebrennikov è di frode fiscale – Summer è una mezza delusione. Il materiale a disposizione del regista era esplosivo, visto che veniva portata in scena la vita giovanile di due dei grandi miti del rock sovietico, Mike Naumenko e soprattutto quel Viktor Coj che a capo dei Kino rivoluzionò il rapporto tra URSS e rock; peccato che Serebrennikov si perda dietro un formalismo fin troppo laccato e studiato a tavolino, disperdendo il potenziale altresì iconoclasta della narrazione. Troppo poco punk, per un film che si pretenderebbe paladino dei punk…
A seguire è stata la volta di Gräns (Borders) di Ali Abbasi, danese di origine iraniana che per l’occasione se n’è andato in Svezia a tradurre in immagini un romanzo di John Ajvide Lindqvist, noto per essere l’autore del best seller Lasciami entrare; presentato in concorso in Un certain regard Gräns è un racconto a dir poco surreale, che narra di una donna dal fiuto fuori dall’ordinario che lavora alla dogana portuale e sa sentire la paura e i sensi di colpa delle persone. Una dote che viene anche sfruttata dalla polizia, ma che non la mette al riparo dall’incontro/scontro/innamoramento con un uomo che incredibile a dirsi – la donna è di una bruttezza rara – le assomiglia. Si scoprirà che entrambi non sono umani, ma troll… Abbasi gira con una certa eleganza, e il film smuove comunque un interesse epidermico già a partire dalla trama, eppure Gräns non sa andare oltre la semplice bizzarria, l’oggetto non classificabile che però resta solo occasionalmente negli anfratti della memoria. Un po’ di carne al fuoco in più non avrebbe guastato. Di carne al fuoco, e dolorosa, ce n’è a iosa in Samouni Road di Stefano Savona, presentato alla Quinzaine des réalisateurs: il documentarista palermitano ha portato a termine un lavoro le cui riprese erano iniziate molti anni fa in Palestina. Il racconto è quello di una famiglia palestinese della striscia di Gaza che viene massacrata dall’esercito israeliano; come possono le giovani generazioni, sopravvissute a quell’inferno, costruire una propria memoria che non sia dominata solo dal lutto e dal desiderio di vendetta? Per raccontare una storia così tragica Savona si affida, oltre alle riprese dal vero girate a Gaza, a intermezzi d’animazione a cura di Simone Massi che hanno il compito di portare in scena quello che la videocamera di Savona non è riuscita a documentare, quel prima che è anche l’unico momento di idillio e – forse – di speranza. A tratti troppo estenuante Samouni Road è un’opera preziosa, stratificata, in grado di ragionare su una questione sempre aperta con obiettività e senza ricorrere a semplificazioni.
La giornata di visioni si è poi conclusa, tra un salto in mensa e l’altro – se ne parlerà nei prossimi giorni – con un film fuori concorso, 10 Years in Thailand, un lavoro collettaneo che mette insieme un giovane cineasta thailandese, Chulayarnnon Siriphol, un autore sempre più interessante come Aditya Assarat, e due veri e propri mostri sacri di stanza a Bangkok, Wisit Sasanatieng e soprattutto Apichatpong Weerasethakul, tra i registi fondamentali di questi anni. Come tutti i film a episodi 10 Years in Thailand non è coeso, ma dimostra la vitalità di una scena artistica come quella thailandese che la situazione politica con la giunta militare al governo della nazione sta progressivamente soffocando. E proprio di libertà e dittatura parlano i quattro episodi, tra il grottesco e lo sperimentale, tra l’indie e la riflessione autoriale più compiuta. Non lo si vedrà mai dalle nostre parti, ma a rimetterci saranno solo e solamente gli spettatori italiani. Peccato.