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È inevitabile, purtroppo, che a un festival si rischi di perdere qualche colpo, e così abbiamo saltato un giorno con il nostro appuntamento quotidiano. Rimediare purtroppo non è troppo difficile, e anzi permette di tornare una volta di più con la mente all’evento più gratificante di questa edizione numero settantuno di Cannes. La proiezione di The House That Jack Built di Lars von Trier. Ne avrete lette di cotte e di crude, se siete interessati alla materia, visto che per ventiquattro ore da Cannes non si è parlato d’altro: lo scandalo che avrebbe dovuto generare il film del geniale cineasta danese, con tanto di malori in sala, fuggi fuggi generale e affermazioni di disgusto. Nulla di più falso, ovviamente, per una vicenda che getta l’ennesima luce oscura su buona parte della stampa accreditata. L’unica cosa che davvero resta è la magnificenza di un’opera colossale, potentissima, che gioca con l’arma del sarcasmo la sua partita con la natura umana, con l’apparentamento tra gesto creativo e atto criminale, con la visione tutta fallica e maschile del ruolo della donna nella società. La storia di Jack, killer seriale che è alla ricerca dell’opera d’arte – e quindi dell’omicidio – perfetto, del capolavoro, è un viaggio magmatico e sulfureo, violento (ma c’è ben altra violenza esibita nella realtà, e perfino nella finzione) e catartico, che sarebbe folle ridurre a fenomeno spettacolare di provocazione. Anzi, è vero l’esatto opposto. The House That Jack Built è un lavoro filosofico sulle umane genti, e sulle loro schizofrenie naturali. Immenso.
Dopo una così devastante visione ci si è potuti in qualche modo rilassare, si fa per dire, con l’agit prop messo in piedi in En guerre da Stéphane Brizé: il film, presentato in concorso, è un’opera militante sulle lotte sindacali contro la chiusura delle fabbriche in Francia. Completamente di finzione, vede un cast di non professionisti guidato con mano salda dall’ottimo Vincent Lindon – unica star del film – ed è apprezzabile anche solo per lo sforzo di ragionare in ottica puramente socialista e internazionalista sul tema della crisi del Capitale. Una rarità di questi tempi. Certo, non tutto torna e un paio di scelte lasciano ben più di un dubbio, ma nel complesso si tratta di un lavoro interessante e anche appassionante. Potrà convincere una giuria? Chissà…
La giornata di martedì e quella di mercoledì si sono rispettivamente chiuse e aperte con Hollywood: in serata è passato Solo: A Star Wars Story, l’atteso spin-off della saga lucasiana incentrato sulla giovinezza di Han Solo, e la mattina successiva ci si è svegliati – un po’ a fatica, visto l’ingarbugliamento della trama – con Under the Silver Lake di David Robert Mitchell. Se quest’ultimo appare come la più evidente delle occasioni sprecate, visto il modo in cui si dà da solo la zappa sui piedi, infarcendo di sottotrame infinite una detection che ha alle spalle un discorso neanche banale sulla cultura pop e sui suoi detriti (per gli amanti del rock è prevista una vera e propria sequenza culto, che non si può qui anticipare ma che vede suonate in medley al pianoforte alcune delle hit più celebri di sempre; in generale comunque la soundtrack è clamorosa, e anche molto ironica), il film di Ron Howard su Han Solo funziona alla grande, sia per ritmo che per scelte narrative. Una vera e propria goduria per gli occhi, due ore e un quarto che volano via alla grande. Se poi il popolo nerd che considera Guerre stellari un marchio di propria proprietà griderà al “tradimento”, sarà solo un problema loro.
Potrei ovviamente continuare come ogni anno a lodare il fantastico Aioli, l’evento organizzato dal comune e dedicato alla stampa che viene nutrita e abbeverata – non si vive di sola acqua – nella splendida cornice del castello che sovrasta la città. Ma sarebbe sadismo nei confronti di chi non era presente. Basterà dire che si era così gonfi e ciucchi che seguire per filo e per segno l’ambizioso Long Day’s Journey Into Night del cinese Bi Gan è stato faticossimo. Un po’ per colpa del vino, probabilmente, ma molto per via di un film più interessante che bello, e troppo teorico per non lasciare completamente freddi. Il talento di Bi Gan, che con questo film partecipa a Un certain regard, non è in discussione, e lo aveva palesato già lo splendido esordio Kaili Blues, visto a Locarno qualche anno fa, ma qui sembra puramente esornativo, come l’interminabile piano sequenza in 3D che è il cuore del film, e ne è anche la sua dichiarazione di parziale sterilità. La giornata si è comunque chiusa in Asia, con il ritorno alla regia di Lee Chang-dong a otto anni di distanza da Poetry. Burning, racconto di un giovane che vive nelle campagne quasi al confine con la Corea del Nord e vorrebbe diventare scrittore, e del suo incontro/ossessione/scontro con una compagna di liceo e un ricco e viziato coetaneo di Seoul con i quali costruisce un triangolo scaleno e sbilenco: thriller mentale – e non solo – imperfetto ma denso di fascino, e con alcune soluzioni di regia davvero notevoli. In corsa per la Palma, ma con poche chance di vittoria a prima vista.