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La fervente scena di Torino si arricchisce di un disco importante in questa prima metà di 2018. Si chiama “Dovresti farlo adesso” ed è opera dei Lechuck, cioè Ulisse Moretti alla batteria e voce, Loris Spanu al basso e voce ed Enrico Viarengo, chitarra e voce. Attivi da oltre un lustro con il nome di Sdeghede, i tre amici hanno rinsaldato le fondamenta emo-punk della vecchia band con elementi post-rock, grazie ad una scrittura di maggiore profondità e arrangiamenti più sperimentali, ma a detta loro “sempre al servizio del formato pop da cantare sotto la doccia”.
Pubblicato lo scorso 20 aprile, “Dovresti Farlo Adesso” vedrà una release ufficiale in concerto all’Astoria di Torino sabato 5 Maggio, a supporto i genovesi SAAM. Li intercettiamo alla vigilia di questo appuntamento importante per le consuete cinque domande kalporziane.
1. Ciao ragazzi, parliamo del disco di fresca pubblicazione. Come nasce musicalmente, e quali sono le tematiche affrontate nelle liriche dei suoi otto brani?
Loris: Il disco nasce due anni fa. All’interno ci sono due canzoni che arrivano da un periodo perfino precedente. Inizialmente volevamo fare uscire un terzo EP chiamato “Kapow!”. L’idea era quella di fare una trilogia onomatopeica (dopo Sbam! e Zap!), però qualcosa è andato storto. Ci siamo trovati in mano un album che aveva una sua coerenza e che non suonava da onomatopea.
Enrico: Normalmente il processo creativo funziona così: Loris scrive il testo e porta lo scheletro della canzone in sala. Poi ci lavoriamo tutti insieme, molto democraticamente. Cerchiamo di fare i conti con il proprio ego e di rispettare quello altrui. A volte scazziamo di brutto e la canzone esce fuori come un parto cesareo plurigemellare. Altre volte il giro di chitarra funziona subito, ci si guarda negli occhi dopo qualche minuto e felici e contenti si va a fumare la sigaretta della vittoria.
Loris: I testi sono un concentrato di situazioni vissute e di dialoghi tra due persone, molto spesso una delle due persone sono io. Molto spesso l’altra persona non è reale ma è, a sua volta, un concentrato di tante persone che ho conosciuto.
L’intento è quello di condividere un’esperienza prettamente personale, a volte anche quotidiana, descrivendola in modo maniacale. Per fare questo faccio leva su certi piccolissimi dettagli, allargandoli, cercando di farli diventare i simboli di quello che si vuole descrivere. Ecco, forse è come quando uno ricorda qualcosa e inizia a parlare da solo. Così!
So che il risultato può sembrare un po’ troppo ermetico, ma non vogliamo raccontare delle storie o dire alle persone cosa e come pensiamo. Preferisco che sia l’insieme, della musica e delle parole, ad avere la velleità di universalizzazione.
Ah, il disco è pieno di parti del corpo, disseminate qua e là. Questo ancora non me lo spiego…
2. Esce a tre anni di distanza dal vostro secondo Ep come Sdeghede, in cosa si differenzia dalla musica prodotta con il vecchio nome?
Enrico: I Lechuck sono l’evoluzione degli Sdeghede, senza nessuna forzatura. Molto sinceramente, a un certo punto ci siamo imposti di cambiare il nome, un po’ perché ci pareva troppo sciocco e temevamo di essere presi per una band da oratorio, un po’ perché ogni tanto per sopravvivere è necessario comprarsi un paio di scarpe nuove o farsi un taglio di capelli diversi. Musicalmente nulla è cambiato, continuiamo a suonare quello che ci piace e a farlo come sappiamo farlo. Certo, forse negli Sdeghede c’era più irruenza e nei Lechuck è spuntata fuori una vena malinconica e riflessiva più sentita e credibile. Sarà l’età?
3. Il lavoro è stato realizzato in pura etica Do It Yourself presso gli Studi Dotto di Torino, con il coinvolgimento di varie etichette di distribuzione. Quali sono state le difficoltà e quale pensate sia il modo migliore per far conoscere la propria musica oggi?
Enrico: Il collettivo Dotto di cui facciamo parte è il motore propulsore di tutto: abbiamo una sala e un piccolo studio tutto nostro, condiviso con altre band amiche. Da sempre registriamo la nostra musica autonomamente, evitando di spostare gli amplificatori e dandoci tutto il tempo necessario per tirare fuori il suono che ci piace. Con Dovresti farlo adesso è la prima volta che abbiamo delegato il mixaggio a un perfetto sconosciuto, Marco Usai, che ci era piaciuto molto ascoltando il suo lavoro con i Quercia. Scelta che si è rivelata azzeccatissima, anche perché nel fare tutto da soli a un certo punto si rischia di perdere la lucidità necessaria che ti porta a dire, a una certa, “basta: ci siamo.”
Ulisse: Credo che sia stata una delle esperienze più belle/tragiche/faticose/appaganti della mia vita. Fare un disco comporta soprattutto una spesa emotiva non indifferente ma sicuramente necessaria per uscire con un prodotto che rispecchi almeno in parte la propria poetica. Per quanto riguarda “Dovresti farlo adesso” non ho nessun ripensamento e sono convinto che sia la fotografia esatta di quello che ci ha portato ad essere i Lechuck.
Enrico: Per quanto riguarda l’uscita, Dotto è anche una piccola label, quindi siamo partiti da lì e abbiamo contattato diverse etichette indipendenti affini per genere, dalla più punk Scatti Vorticosi alla più indie Dreamingorilla, fino alla tedesca Entes Anomicos. Siamo orgogliosi di aver messo insieme realtà diverse e di avere quel supporto necessario per provare a uscire dalla propria bolla. Tutto questo, unito al processo di promozione di un disco, è di fatto un lavoro, nel senso che ti tocca posare gli strumenti e passare lunghe giornate tra mail, telefono, comunicati stampa, video da girare e tanto altro. Non è per niente facile e il rischio è quello di perdere l’entusiasmo puramente legato alla musica. Ma si fa, perché oggi le cose vanno così. Quale sia il modo migliore per farsi conoscere credo non l’abbia capito bene ancora nessuno; sarebbe bello continuare a credere che se si ha per le mani un prodotto valido allora sia sufficiente aspettare e vedere cosa succede. Per noi è già molto gratificante leggere chi ci scrive su Facebook “ragazzi, avete fatto un disco incredibile”.
Loris: Oggi non c’è nessun problema a far ascoltare la propria musica, semmai è difficile emergere tra un’infinità di band validissime in circolazione in quanto il mercato è iper settorializzato. Ma questo vale per tutto, non solo per la musica. La percezione purtroppo è che i soldi siano la risposta a tutto. Questa impressione condiziona molto le scelte che una band può fare oltre che a demoralizzare il poveretto e rendere arrogante chi ha tanti soldi da spendere.
4. Il vostro suono molto dinamico e potente trae spunto dalla lezione dell’indie rock americano di fine anni ottanta. Quali sono i vostri riferimenti principali, italiani e stranieri?
Enrico: Grazie per il molto dinamico! Direi che ognuno di noi ha i suoi riferimenti. Io potrei dire Jawbox, Rival Schools, Screamfeeder, più tutta la scena emo statunitense dei primi ’90. Ma mi stuzzicano molto anche le chitarre dei Modest Mouse o di Johnny Marr. E gli Afghan Whigs. Tra gli italiani sicuramente CRTVTR e Three in One Gentleman Suit.
Loris: Ne dico due che penso valgano per tutti e che valgono solo oggi, domani ne direi altri: Baton Rouge (francesi) e Soviet Soviet.
Ulisse: Per quanto mi riguarda di sicuro Sasquatch, Gutter twins e un po’ di cosette rubate qua e la tra Oneida, Slint e Nirvana. Italiani in primis i Verdena seguiti da Ministri e Soviet Soviet.
5. Quali sono i progetti dei Lechuck per l’immediato futuro?
Loris: Suonare, suonare, suonare.
Enrico: Suonare. Tanto. Di più.
Ulisse: Suonare?
(Matteo Maioli)