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«Anche oggi qualcuno mi ha chiesto di lui». La vita di Dori Ghezzi, da ormai quasi vent’anni, è scandita così. Da voci che, con pudore o con spregiudicatezza, cercando con cura le parole o concedendosi il lusso di essere schietti, le sussurrano: «Sa, signora, a me sembra di conoscervi da sempre. Lei. E Fabrizio».
Parole che lei conosce e si aspetta, in particolare da quando la vita e le scelte l’hanno trasformata da cantante a custode di una memoria, organo di una voce di cui in tanti più che mai oggi, sentono l’assenza. Quella di Fabrizio De Andrè.
Negli anni, la ricerca e la fame – di aneddoti, di ricordi, di frammenti di vita – da parte di chi lo ha amato e ammirato non ha fatto, se possibile, che espandersi. Un desiderio che, nella certezza espressa già l’11 gennaio del 1999, che «Fabrizio è di tutti» – negli anni, Dori Ghezzi ha contribuito ad appagare, in numerose forme, ultima in ordine di tempo la fiction Principe Libero, che si avvale, come è evidente dal taglio stesso della sceneggiatura, del suo decisivo apporto. Non c’era stata, però, fino a qui, una organica presa di parola diretta, se non per spezzoni di interviste. Per pudore, bisogno di conservare la memoria intima nel chiuso, appunto, dell’intimità.
E aver dato alle stampe per Einaudi Lui, io, noi, non contraddice questa intenzione.
Nelle pagine agili e dense che firma insieme a Giordano Meacci e Francesca Serafini infatti c’è molto, e molto manca, ed è un merito. Non indulge infatti nel profluvio di anedottica che in genere contraddistingue le biografie, non sfrutta la propria posizione di osservatrice privilegiata per farsi censore del vero e del falso delle voci che negli anni si sono rincorse (con la sola garbata eccezione di alcune dichiarazioni di Paolo Villaggio, la cui tendenza al paradosso non è però mai stata un mistero).
C’è invece un costante e affettuoso dialogo, dichiarato capitolo per capitolo, tra lei e la coppia Meacci-Serafini – già sceneggiatori della fiction – tra il dentro e il fuori della sfera della vita condivisa. Tra familiari e fan, che non perdono il loro rispettoso sguardo di affettuoso distacco ma assurti quanto basta al grado di amici, in un gioco di affinità elettive e di rimandi costanti che intesse tutto il libro, per chiedersi se in fondo esiste un destino che segna le sorti, al di là e al di sopra della nostra possibilità di controllarlo.
Un lavoro a sei mani che crea, concretamente, qualcosa che prima non c’era. Perché è la voce di Dori Ghezzi, quella che racconta, non (solo) quella della moglie di Faber.
C’è la sua vita, l’emergere dei suoi ricordi, in un flusso ordinato da una prosa elegante, curata, che gestisce con grazia lampi limpidamente letterari e squarci vividi di esistenza, ironici o commuoventi, e dallo svolgersi di pensieri terrigni (nel pieno spirito della vita di agricoltori che si erano scelti in Sardegna) e profondi, lungo i quali si snoda un’apparente bulimia di rimandi colti, citazioni, riferimenti di chi sembra voler dimostrare tutta la cultura che possiede e che non sempre le viene riconosciuta.
Ci sono i legami che non si trovano altrove, accanto a Tenco e Fernanda Pivano: capitoli interi costruiti intorno a ritratti vividi che talvolta non ci si aspetta. Marco Ferreri, Cesare Zavattini, Sergio Cusani. Perchè, sembra dire questo libro, la storia di Fabrizio è prima di tutto storia di un tempo, il Novecento, e di un luogo, questo Paese, da cui lui è stato attraversato e che ha aiutato a comprendere, sforzandosi, con curiosità e impegno, di indagare.
Le pagine che Dori Ghezzi firma hanno una prosa elegante, curata, che gestisce con grazia lampi a tratti limpidamente letterari e che comunque non sembrano mai semplice raccolta o rievocazione di una cronaca.
E poi inevitabilmente, c’è, con leggerezza e grazia, l’evocazione di un grande amore. Che è fondativo, e il ruolo che oggi Dori Ghezzi ha scelto di rivestire, ne dipende. Ma non la costituisce ed è piacevole poterlo finalmente intravedere.
«Quando mi vengono in mente i suoi luminosi, inesorabili cambi di segno, mi rendo conto che non mi manca soltanto lui e la voce che aveva per me. Mi manca anche una parola che possa prendere il posto di nostalgia nelle emozioni che mi descrivono». Emmenalgia, rispondono Meacci e Serafini, desiderio malinconico di continuare a oltranza; il desiderio che, in altro modo, contagia tutti quelli che hanno amato il personale Fabrizio De Andrè che ciascuno si è costuito nell’arco dell’esistenza.
Che pure lascia in tutti – anche nella donna che con leggerezza fa il verso al Montale di Ho sceso dandoti il braccio dedicato in esergo commentando E ora che non ci sei/cammino su vertiginosi tacchi/ostentando un ipotetico equilibrio – il desiderio di guardare al futuro, negli occhi di un nipote o nelle vicende di un Paese che le parole di Fabrizio sanno ancora raccontare, e di cui le precise parole di Dori Ghezzi possono essere buone compagne.
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