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Lo metto sotto una lente dalla media risoluzione ed “Any Day” mi risulta un disco, sì, relativamente poco brillante. Tolgo la lente, metto l’altra lente e naturalmente il discorso cambia. Su “Any Day” più che su molti altri lavori, è la lente della contestualizzazione che sposta il giudizio. Contestualizzazione ma anche il doveroso sguardo su quella traiettoria che la band conduce con intenti artigianali da una venticinquina di anni. Siamo di fronte a un disco che come al solito (al solito dei Sea And Cake) è ben suonato, accurato ed esile. Esile è appunto da intendersi in tutti i sensi, sia come leggerezza articolata, sia suggestioni vicine alla bossa, sintetizzatori gentili e scrittura in apparenza col pilota automatico (in realtà con la testa ben accesa). C’è la voce di Sam Prekop che da sempre sussurra, compila e resta sempre nel suo registro. Ci sono le componenti “più mosse” sul fondale, articolazioni non invadenti che se le vuoi vedere le guardi, sennò ti godi canzoni che son godibili di loro. Questo più o meno sono, questo erano i Sea And Cake. Post-rock, nome largo e un po’ vuoto è la coerente esigenza di definire per raffronto diacronico ciò che sembra più semplice di quel che è. È l’esigenza di ribadire, appunto, una forma di complessità invisibile e rarefatta.
Rispetto alla prova precedente (“Runner” del 2012), “Any Day” non ha lì in mezzo la sua “Harps” e qualitativamente sta nel complesso un gradino sotto. L’album si materializza dopo un cambio di line up che è comunque importante (il bassista Eric Claridge è fuori da qualche anno). Il disco paga forse il prezzo di essere ancor più di prima nelle mani di uno (Sam Prekop). Così come ne trae giovamento in termini di omogeneità, risente di qualche sua tendenza monocorde. “Any Day” parte con l’invito di “Cover The Mountain” e trova il suo cuore che batte nella semi-acustica “Occurs”. Più che i soliti nomi associabili per vari motivi (Tortoise, Gastr Del Sol) sottolineerei l’eleganza un po’ polleggiata di certi Prefab Sprout e Style Council (nell’umore, non nei suoni). Per fare paragoni con l’oggi, il fioretto pop con le chitarre va dalle parti dei Real Estate, dei Wild Nothing di “Nocturne”, degli Hoops o (spostandosi in UK) dei Dutch Uncles. Rimane il fatto che ci sono poche escursioni nei territori anche limitrofi e restiamo lì (gradevolmente) fra trame leggere e tinte pastello. Eppure, attingendo alla stessa tavolozza, “Jacking The Ball” suonava abbagliante nel 1994.
65/100
(Marco Bachini)