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Chissà che genere di concerto si aspettavano i più giovani tra quelli accorsi a sentire i Yo La Tengo al Fabrique di Milano martedì 15 maggio.
Perfino chi scrive, che ha passato i trenta da un po’, non sapeva bene come approcciare lo show della storica band di Hoboken. La soggezione davanti a un gruppo che ha avuto, fin dai suoi albori, un ruolo guida per l’alternative rock tutto, è innegabile. Come innegabile è il timore che, dopo tanti anni, l’esecuzione live possa essere stanca ed autoreferenziale, come troppo spesso accade ai mostri sacri con una carriera trentennale alle spalle.
Non è andata così. Come candidamente ammesso dallo stesso Ira Kaplan durante la sua prima chiacchierata con i fan (avvenuta dopo 40 minuti circa di concerto), gli Yo La Tengo sono “professionisti”, artisti navigati che hanno ben chiaro nella testa il proprio sentiero musicale e come raccontarlo al resto del mondo.
Già dopo una manciata di canzoni è chiaro che non siamo davanti a un’esibizione pensata per soddisfare tutti. La scelta del trio del New Jersey, infatti, è quella di trasformare la prima ora di concerto in una cerimonia a quattro (dove il quarto è il pubblico), con un set iniziale talmente lento ed etereo (molti i brani tratti dall’ultimo “There’s a Riot Going On”) da sfiorare il mistico. Voci e strumentazione danno vita ad un unico flusso sonoro, e chi ha deciso di abbracciare in toto l’idea Yo La Tengo non può che farsi cullare e coinvolgere da melodie che a tratti trascendono i confini della musica da camera, risultando sempre limpide ed ispirate.
Al rientro sul palco dopo una pausa di 15 minuti, è intuibile che la band regalerà al pubblico qualcosa di diverso. Poco dopo aver imbracciato gli strumenti, il gruppo di Hoboken investe i presenti con alcuni dei pezzi più tirati del loro repertorio, pescati da album molto diversi tra loro, andando a comporre un quadro denso di sfumature ma comunque armonico. Se brani storici come “Sudden Organ” e “Sugarcube” sono eseguiti con ancora più grinta e frastuono che su disco, durante “Pass the Hatchet” e Nothing To Hide” la chitarra di Ira Kaplan buca letteralmente l’aria. Alcuni dei presenti arrivano addirittura a tapparsi le orecchie, mentre la sei corde del frontman si arrampica in assolo dilatati, pregni di feedback ed effetti. Ma si tratta solo di episodi isolati, la maggior parte della folla si lascia trasportare, spesso ad occhi chiusi, dall’anima più shoegaze della band.
Le cover che compongono l’encore, tra le quali la storica “There is No Life Without Love” dei Kinks, impreziosiscono ulteriormente una performance che conferma quello che già sapevamo: l’opera dei Yo La Tengo rappresenta una delle massime vette del genere che un tempo chiamavamo indie. E i loro live sono qui a ricordarcelo.