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E’ appena terminata un’altra edizione di Apolide, festival musicale nel cuore del Piemonte giunto al quindicesimo anno di vita. Il percorso di Apolide in questi anni non è stato tutto rose e fiori, ma costellato tanto da grandi gioie quanto da fisiologiche avversità e sfighe: la più grande quattro anni fa quando, ancora “Alpette Rock”, dal nome del paesino che ha ospitato la rassegna per dieci anni, rischiò di saltare a pochi giorni dall’inizio a causa della mancata autorizzazione al campeggio da parte del sindaco ed altre imposizioni proibitive. Quel momento difficile si è rivelato una sliding door positiva per gli organizzatori del festival, l’associazione To Locals, grazie all’inaspettata disponibilità da parte del piccolo comune canavesano di Vialfrè ad ospitare l’ex Alpette all’interno dell’area naturalistica Pianezze, un’oasi di verde lontana da centri abitati e rompipalle vari.
Da lì, la rassegna cambia nome dopo il “tradimento” del comune che gli ha dato i natali e come Apolide mette di fila quattro edizioni in costante crescita e unicità rispetto a tutti gli altri boutique festival italiani. Se, come qualcuno ha avuto modo di scrivere più o meno ironicamente, il Mi Ami è il Coachella italiano, allora Apolide ha tutte le carte in regola per confermarsi il nostro Sziget. Molti altri festival della Penisola possono contare su location senza dubbio incredibili, come gli appuntamenti sul mare esplosi negli ultimi tempi nel Meridione, dall’Ortigia in Sicilia al Viva tra i trulli di Locorotondo, ma difficilmente s’è vista in Italia una manifestazione in un’area naturalistica così bella, ampia e predisposta ad ospitare palchi e tende come quella di Vialfrè, a misura sia di famiglie (quest’anno erano tante) sia di giovani pieni di alcool nel corpo (pure). Il fatto che non prenda il telefono non può che essere un altro punto a favore per questo luogo. Così come nel celebre festival di Budapest sull’isola in mezzo al Danubio, l’atmosfera unica di Apolide data dall’immersione nel verde e dal campeggio è tanto importante quanto la line up degli artisti chiamati ad animare i palchi, se non di più: chiunque (o quasi) ci sia a suonare, non intaccherà l’atmosfera di relax e fuga dal grigiore urbano, nonostante ci si impieghino solo 30 minuti dal centro di Torino per arrivare in loco. E dire che la line up non è mai stata secondaria, dal momento che uno degli organizzatori, Salvatore Perri, già parecchio tempo fa aveva dichiarato la volontà di far crescere Apolide in un’ottica internazionale e creare un festival dal carattere europeo “che attiri anche il pubblico transalpino”.
Negli ultimi anni Apolide ha cercato infatti di mischiare indie italiano, strizzandogli l’occhio ma senza chiuderlo totalmente come fa l’80% dei festival nostrani, e nomi di spicco del pop alternativo internazionale, dalla francese Jain a Tiggs Da Autor, chiamati nell’esatto momento in cui i loro successi imperversavano nelle radio italiane (rispettivamente Come e Georgia, se non avete memoria a lungo termine). Quest’anno c’è stato tutto: nomi internazionali, outsiders italiani, la gradevole cornice naturale e ovviamente la sfiga di cui si parlava all’inizio. Un diluvio dalle dimensioni bibliche ha prima costretto a far ritardare i concerti del venerdì, poi ad annullare completamente la giornata su esortazione della Protezione Civile che ha evacuato la zona, bombardata da lampi e da una pioggia incessante. Fortunatamente, nell’unico lasso di tempo senza precipitazioni ha avuto modo di salire sul palco Alice Merton, che con la sua No Roots (quale canzone migliore in un festival che si chiama Apolide?) ed un’altra manciata di brani ha reso meno tragica ed insopportabile la situazione creatasi con quel tempo nefasto, che non ha permesso l’esibizione degli artisti forse più attesi dell’edizione, come MYSS Keta, Témé Tan e Popolous. D’altronde è questa l’altra faccia della medaglia: se rendi protagonista del tuo festival la natura (il claim dell’evento è “A walk on the wild side”), devi sottostare ad essa nel bene e nel male, anche se quel male ti farà fare un bel buco nel bilancio finale. Il tempo è stato clemente per tutto il resto del weekend, lasciando solo un po’ di fango melmoso per terra, e sotto gli alberi dell’area naturalistica, tra un workshop ed una performance teatrale, abbiamo avuto modo di assistere a parecchie cose divertenti: Samuel, in esclusiva per il festival, ha riassunto la sua carriera artistica dai Subsonica ai dischi solisti con uno show pieno di ospiti, dai Bluebeaters ai Bianco ed il rapper Mudimbi, che si è dilungato per più di due ore; Ismail dei Digitalism, in solitaria, s’è lanciato in un set techno bello tirato pieno di remix-chicche; Dan Owen, altro colpo di mercato internazionale, nel suo primo tour in Italia ha fatto sentire le sue doti vocali tra blues e pop da X Factor; I C+C= Maxigross e gli Indianizer, calati in questa atmosfera da pacifica comunità montana, si confermano gli esponenti di spicco di quella strana psichedelia rurale e folkeggiante che ci viene particolarmente bene in Italia; Bruno Belissimo si porta a casa l’esibizione più coinvolgente del festival, col Boobs Stage completamente rapito dal suo mix di french house e cafonaggine italo disco che sprizzano dal suo ultimo album “Ghetto Falsetto”.
Se le sfide, e le sfighe, forgiano l’uomo e le sue imprese, i quindici anni di Apolide non possono che rappresentare una consistente base per un festival sempre più grande ed internazionale, in un momento storico in cui la mancanza di fiducia ed intesa col pubblico, giustamente, non paga (vedesi la triste storia del Radar Festival). L’impresa sarà non snaturare l’atmosfera unica che l’area naturale e il verde creano col possibile avvento di un numero sempre crescente di pubblico ed una line up ancora più prestigiosa. Noi ci crediamo in un Apolide sempre migliore in futuro, più fortunato e meno bagnato.