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Ci sono album che cambiano per sempre la percezione della musica pop nella mente di un ascoltatore. Per chi è nato verso la fine del ventesimo secolo, è molto probabile che quell’album sia stato il debutto omonimo dei Gorillaz, nel 2001, seguito pochi anni dopo dall’altrettanto solido “Demon Days”. Questi due lavori avevano fatto capire, con un decennio d’anticipo, che si poteva finire nelle posizioni più alte delle classifiche mondiali (anche in paesi medievali come l’Italia, non senza il contributo di pubblicità martellanti con i Gorillaz come colonna sonora) con della musica intelligente ed elaborata, senza confini di genere, in un periodo storico in cui in cima alle charts c’erano i Backstreet Boys e “Dammi Tre Parole” di Valeria Rossi. Tutto ciò andava al di là dell’hype creata dal lavoro visionario dell’illustratore Jamie Hewlett e dalla scoperta, dopo un primissimo periodo di anonimato, che la mente nascosta dietro il progetto era Damon Albarn dei Blur.
Il nocciolo della questione era il suono: così come i Clash, padri spirituali del progetto, univano punk bianco e reggae nero, nei primi due album i Gorillaz avevano dato vita ad un calderone con dentro brit pop, dub, rap, trip hop (una summa della controcultura inglese anni ’90, insomma) e suonini elettronici che venivano a galla solo dopo l’ennesimo ascolto dei brani, in una sfida rivolta all’ascoltatore a cogliere sempre nuove linee di synth o di cori nascoste sotto un centinaio di tracce audio. Un mondo parallelo, cartoonesco, in cui si potevano incontrare gli Happy Mondays ed i De La Soul, Lou Reed e Mos Def in modo incredibilmente coerente e piacevole. Quello che all’epoca era una ventata d’aria fresca portata dal quartetto virtuale capitanato da 2D, ora è la norma in cui si incappa continuamente su Spotify, e artisti alla ribalta come Mura Masa ci han tenuto spesso a ricordare che senza l’ascolto di “Demon Days” non avrebbero mai giocato col crossover urban di generi diversi che ha dato vita al cosiddetto street pop/ nu r&b, quello che ora è costretta a fare per contratto anche gente come Francesca Michielin.
Che ne è rimasto di questa visione futuristica, di un progetto così curato in ogni aspetto? Con una metafora a prova di millenial, possiamo dire che i Gorillaz da leader son diventati follower: mentre nei primi album era un compito da nerd scoprire l’identità dei collaboratori impegnati in studio, in “Humanz”, del 2017, la tracklist risulta infarcita di ospiti giovani e alla moda, (Kelela, Vince Staples e Popcaan…) come se fosse necessario per Albarn chiamare in soccorso più nomi cool possibili per farsi ancora sentire in un mondo discografico che è diametralmente opposto a quello di soli 15 anni fa. Il risultato non era stato dei migliori (qualcuno si ricorda un pezzo, su due piedi? Conto Arancio usa ancora “Clint Eastwood” nel suo spot), quindi figurarsi cosa si può pretendere da un album uscito in fretta e furia un anno dopo, “The Now Now”, scritto in tour e registrato nel giro di un mese.
Il disco risulta ancora meno ambizioso di “The Fall”, un lavoro minore che Albarn aveva composto a nome Gorillaz col solo ausilio di un Ipad nel 2010, al posto di giocare a Candy Crush come fanno tutti quando sono in bagno. Sulla carta anche questo è un disco “solista”, incentrato sulla voce ed i testi di 2D, ritratto sulla copertina come un songwriter d’altri tempi. Gli ospiti stavolta sono centellinati, e spiccano solo la voce Snoop Dogg in “Hollywood”, la chitarra di George Benson in “Humility” e quella del vecchio amico Graham Coxon in “Magic City”. Come già era emerso in Humanz, la varietà sonora a cui eravamo abituati e di cui tanto abbiamo decantato le lodi è solo un lontano ricordo, e l’album suona come una massa uniforme simil-elettronica senza alcun sapore o guizzo sonoro. “The Now Now” ci serve forse per capire due cose: 1) Come abbiamo detto, è anche grazie ai Gorillaz se molti giovani producer fanno musica di un certo tipo, però ora possiamo concentrarci solo su questi ultimi, che sicuramente ora hanno più cose da dire; 2) l’unico vero membro che ne esce vincitore da tutto ciò è Jamie Hewlett, dal momento che la cosa migliore e più discussa di “Now Now” è il freschissimo video di “Humility” con Jack Black, da lui scritto e diretto. Consoliamoci così, rimangono uno dei concept visivamente più fighi e originali dell’industria musicale contemporanea. Forse sarebbe più stimolante per il pubblico se il progetto Gorillaz si spostasse definitivamente su altri media, come un fumetto sulla band o un film, perché nei dischi non c’è molto altro da aggiungere rispetto al passato.
65/100
(Stefano D. Ottavio)