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L’iperattivo sassofonista losangelino Kamasi Washington rilascia “Heaven And Earth”, il secondo lavoro per Young Turks dopo “Harmony Of Difference”, un doppio album di centoquarantacinque minuti di lunghezza nel quale consolida lo status raggiunto in oltre vent’anni di attività – dall’Award 1999 alla John Coltrane Music Competition passando per le ospitate live al fianco dei maestri Herbie Hancock e Wayne Shorter, fino a quelle in studio sui dischi di Run The Jewels, Twilight Singers, Ryan Adams e soprattutto Kendrick Lamar. Puntando sulla magniloquenza del suono più che sull’originalità delle composizioni.
L’ambizioso progetto – ricordando che segue il triplo “The Epic” del 2015 – è così introdotto dal nostro: “The Earth side of this album represents the world as I see it outwardly, the world that I am a part of,” mentre “The Heaven side of this album represents the world as I see it inwardly, the world that is a part of me. Who I am and the choices I make lie somewhere in between.” Necessario quindi soffermarsi sui punti nevralgici all’interno di un’opera che dilata oltremodo i confini del jazz, a iniziare dalle “cover”, una riuscita l’altra meno, di “Fists Of Fury” (soundtrack dall’omonimo film di Bruce Lee del 1972) e “Hub-Tones” del trombettista Freddie Hubbard del ’63, dove la rilettura in chiave bossanova penalizza la frizzante versione originale. Momenti di avanguardia (l’incipit di “The Invincible Youth”, “Show Us The Way”) in contrasto a ballate smoothy come “Journey”; il funk grezzo di “Connections”; o piuttosto la jam “The Psalmnist” scritta dall’altro membro cardine dell’ensemble Ryan Porter: sono tutti gli ingredienti di una ricetta cucinata con sapienza e, perchè no, furbizia da chi ha in programma di esibirsi praticamente tutte le sere per il resto del 2018.
Nella volontà di Washington i brani forti di “Heaven And Earth” sono “Vi Lua Vi Sol” e “Testify”, accomunate da un refrain cantato – rispettivamente da Dwight Trible e Patrice Quinn – e dal tema dell’amore universale; tuttavia la sofisticatezza della prima contrasta con l’arrangiamento, molto debitore dello Stevie Wonder di “Innervisions”, della seconda. Da preferirsi quindi la freschezza e semplicità di ascolto di “Street Fighter Mas”, un gospel moderno arricchito dai contributi dei fratelli Bruner, Stephen “Thundercat” al basso elettrico e Ronald alla batteria. Detto di alcuni riempitivi come “Tiffakonkae” sono due gli episodi che a detta di chi scrive rimarranno nel tempo, cioè l’incredibile “Can You Hear Me” dove il sax avvicina le vette di una “Impressions” e l’eterea e orchestrale “The Space Travelers Lullaby” scritta con in mente Sun Ra e nel cuore Marvin Gaye.
Kamasi Washington è un prodigio da rivelarsi ancora appieno. Dategli credito e tempo, e limerà gli spigoli della sua musica.
70/100
(Matteo Maioli)