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L’appuntamento mensile con un contenuto di Mangiatori di Cervello, per approfondire qualcosa di “altro” rispetto ai “soliti” contenuti kalporziani con lo stile e la visuale inconfondibile di MdC.
C’era un volta un ragazzino talentuoso che amava Jimi Hendrix e Frank Zappa. Gracile, introverso ed ispirato, John Frusciante è entrato nella storia a poco più di vent’anni come il grande chitarrista dei Red Hot Chili Peppers. Tutti sanno poi che ad un certo punto, nell’ormai lontano 1992, a causa di incomprensioni, rapporto controverso stile Kurt Cobain con i media, la fama e l’eroina, fu sul punto di far esplodere il gruppo per poi scomparire, ammazzarsi di droga e registrare album (Niandra Lades and Usually Just a T-Shirt è un delirante capolavoro). Qualcuno pensò bene di interessarsi alla sua vicenda da vicino e di girare persino dei documentari sul suo stato precario: Johnny Depp, ad esempio, si prese a cuore la questione “giovani eroinomani” e la approfondì girando il corto Stuff nel 1992, dove si scandaglia, in particolare, il caos imperante nell’appartamento di Frusciante; ironia del destino, qualche tempo dopo l’amico River Phoenix gli morì sul marciapiede di fronte al locale gestito dallo stesso Johnny Depp a Los Angeles, il Viper Room. Anche dei tizi olandesi andarono a casa di John e lo intervistarono nel 1994, quando era ormai l’ombra di se stesso, stralunato, con i capelli scarmigliati, colorito itterico, smalto dentale da meth-head, tracce di ascessi sulle braccia per selvagge quanto maldestre iniezioni di oppiacei. Flea ha dichiarato più volte di essere certo che John sarebbe morto.
Ma torniamo indietro di qualche anno. 22 febbraio 1992. Blood Sugar Sex Magik, irrefutabilmente il migliore album dei Red Hot Chili Peppers, è acclamato in ogni angolo del pianeta e sta registrano record di vendita siderali. John non la prende bene. Lui vuole suonare solo nelle bettole, nei piccoli club, per un ristretto gruppo di fan accanitissimi dei Red Hot come lo era lui ai tempi di Hillel Slovak. Nelle sue condizioni, inoltre, non deve essere facile sopportare Anthony Kiedis ripulito dalle droghe che gli sta con il fiato sul collo e non ammette né canne, né intemperanze. Inoltre, sin dai tempi di Mother’s Milk, gli altri membri della band lo punzecchiano chiamandolo “pivello”, “greenie” e quant’altro. Insomma, il risentimento è già nell’aria: John e Anthony non si parlano nemmeno sul bus del tour e si lanciano sguardi carichi di odio e disprezzo. La band inizia ad essere invitata ad eventi e programmi col botto come il Saturday Night Live. In diretta, davanti a milioni di spettatori americani, traghettati verso il mainstream. Quale migliore sfondo per una potente deflagrazione? In questo periodo Anthony ronza intorno a Sofia Coppola e fa il brillante dicendole che si esibirà al Saturday Night Live con la sua band e la prega di guardare lo show. Prima di salire sul palco, John si fa coinvolgere in una baruffa con un membro della crew e mette il broncio perché Madonna non lo fila. Non è fuori luogo pensare che Anthony stia tenendo banco con Lady Ciccone, mentre John, ingobbito e con lo sguardo torvo, li guarda stizzito da un angolino (in effetti l’anno dopo Anthony e Madonna si esibiranno insieme all’Arsenio Hall Show, entrambi in gonnella, toccandosi e strusciandosi l’una contro l’altro).
Ma ora i Chili Peppers devono fare buon viso a cattivo gioco e suonare. L’esecuzione di Stone Cold Bush, galvanizzante pezzo tratto da Mother’s Milk, riesce senza troppi scossoni, anche se durante una delle sue mosse coreografiche esuberanti Anthony sferra per sbaglio un calcio al ginocchio di Frusciante, che già non è esattamente in forma smagliante. Nonostante l’increscioso episodio, John, comunque statico e ostile, rimane ancora inoffensivo. Tutti e quattro a torso nudo, Anthony nerboruto e lanciatissimo, Flea col volto dipinto di bianco (Flea è sempre Flea), Chad ligio e ignaro.
La scaletta prevede ora Under the Bridge, pezzo che Anthony sbaglia regolarmente dal 1991, riuscendo puntualmente a stonare soprattutto in corrispondenza del passaggio dalla strofa al ritornello, quando canta “lonely as I am, together we cry”. Quindi è del tutto comprensibile che sia in ansia da prestazione. Si aggiunga anche la dirompente scarica di negatività proveniente da John, che ora indossa un meraviglioso golfino di lana degno di quelli di Bill Cosby. Flea camuffa il viso con una sorta di turbante/passamontagna nero da topo da appartamento e Anthony conserva la sua sobria mise a petto nudo, shorts neri con la stampa di una mano argentata proprio sulle pudenda e guanti lunghi dello stesso colore. Si parte. Un John sempre più ingobbito strimpella un intro irriconoscibile e distorto che lascia Anthony sbigottito. Gli astanti non fiatano, ma qualcuno sembra armarsi di coraggio e urlare “What a shit”. Con difficoltà, il riff confluisce nella prima strofa, molto più lenta, ma il sound pare essere rientrato nei ranghi della normalità. Anthony è comunque teso e cerca di cavarsela, cantando sommessamente, e guarda dritto verso John, quasi implorandolo con lo sguardo di non cambiare ritmo o tonalità all’improvviso. Il ritornello e le strofe seguenti scivolano via nonostante la palpabile tensione e il terrore misto a disprezzo sul volto di Anthony. Si arriva dunque all’outro. E qui John esplode. Inizia letteralmente ad ululare, gridare a squarciagola, strillare istericamente. Mentre suona le ultime note, Anthony afferra mestamente l’asta del microfono, serra le labbra e guarda con sufficienza John, che nel frattempo si trova probabilmente nelle dimensioni parallele di cui lui spesso parla in varie interviste.
Si chiude così la pagina più interessante della lunga storia dei Red Hot Chili Peppers: John lascerà la band poco tempo dopo e durante la tappa giapponese e si ritirerà. Poi risorgerà e tornerà tra i suoi fratelli. Ma questa è un’altra storia. Senza cedere alle mistificazioni del revisionismo, questa potrebbe essere una delle interpretazioni più interessanti di Under the Bridge, ululati e sguardi d’odio compresi.
a cura di www.mangiatoridicervello.com
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