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Leggete questo articolo ascoltando Taro, lo struggente brano contenuto nell’album An Awesome Wave (2012) della band inglese ∆ -Alt-J e pensate a lei: Gerda.
Pensate anche che a vincere il Premio Strega – il più noto tra i concorsi letterari, assegnato annualmente all’autore o autrice di un libro pubblicato in Italia – in questo 2018, è stata una donna: Helena Janeczek (classe 1964), che racconta di un’altra donna, con La ragazza con la Leica (Guanda).
La notizia è magnifica anche per il mondo dell’Arte e della Fotografia, dato che il volume racconta proprio di Gerda Taro, fotografa. L’autrice ci consegna un libro che è un lavoro documentativo scrupoloso, di anni di passione e ricerca, ma romanzato: un buon ponte tra fatti immaginati e la Storia. La ragazza con la Leica narra di questa donna speciale e affascinante attraverso ricordi di tre diverse persone che le sono state vicine in momenti differenti e diversamente l’hanno amata; ma il volume è anche lo specchio dell’Europa e della Germania degli anni Trenta e della decadenza che porterà al Nazismo, alla violenza, alla reazione dell’antinazismo – e antifascismo in Italia – e a un sommovimento mondiale epocale.
Ma chi era Gerda Taro?
Tedesca nata a Stoccarda ma di origini ebree polacche – origini che sono anche le stesse dell’autrice del libro – fuggì dalla Germania quando Hitler diventa cancelliere, ripara a Parigi e arrivò a raccontare – con le immagini – lo spaventoso conflitto civile spagnolo, scrivendo una pagina significativa della fotografia di guerra. Ella fu, infatti, una bravissima war photographer, pioniera del genere, assai coraggiosa, appassionata e talentuosa; era anche bella, sfrontata e indipendente, tanto che – pensate un po’ quanto erano duri quei tempi per una donna! – il grande scrittore Hemingway la definì – pare – “una puttana”… In generale, una deplorazione, se ci fu, ci fu proprio perché questa donna era lontana da ogni costrizione e gabbia: lei, che in prigione c’era stata davvero, a 23 anni, a Lipsia, per propaganda antinazista e attività sovversiva!
Aveva uno spirito rivoluzionario, Gerda, “la biondina”, come l’avevano soprannominata in Spagna; e aveva uno sguardo fotografico forte. I suoi scatti mostrano una vicinanza fisica ed emotiva ai propri soggetti, forse non dimenticando quanto affermava Robert Capa: “Se una foto non è buona non eri abbastanza vicino”. Tali soggetti sono per lei sempre umanissimi, costantemente evidenziati grazie a un preciso taglio prospettico e sono loro, i protagonisti della guerra, soldati, civili e vittime, al centro dei suoi racconti per immagini. Spesso emergono i suoi archetipi prediletti: il soldato, il miliziano e il contadino; ma anche le donne, soprattutto intellettuali e miliziane; e l’infanzia (rubata). Sempre, l’inquadratura è sempre equilibrata e palesa un linguaggio con un che di eleganza sottile, mai assente, nemmeno in reportage tra i più duri. Per Gerda è indifferente l’uso della macchina fotografica: che sia la Rolleiflex o la Leica; ma quando usa questo apparecchio più agile e compatto – ne utilizzò due diversi modelli, da 35 mm con lenti diverse, sicuramente tra metà febbraio 1937 e la sua morte – i suoi scatti ne guadagnano in drammaticità e migliore tecnica, aumentano in intuitività e rapidità.
Come fotoreporter e come donna fu indomita e purtroppo ciò le costò caro. Gerda morì giovane, per un terribile incidente al ritorno dal fronte di Brunete (in Spagna), schiacciata sotto un carro armato in fuga da un attacco di aerei tedeschi. Si racconta che nonostante le agghiaccianti ferire, che la condussero alla morte, si preoccupasse solo delle sue macchine fotografiche che temeva si fossero potute rompere…
“Avete messo al sicuro le mie macchine? Sono nuove”
Una recente rara foto, assai straziante, la mostra adagiata mentre un dottore – l’ungherese Janos Kiszely, delle Brigate internazionali che combattono Franco – la assiste; ritrovata dal di lui figlio, l’ex militare britannico John Kiszely, figlio di Janos, che l’ha postata il 6 gennaio 2018 su Twitter, palesa tutta la barbarie della guerra e una morte prematura.
Gerda aveva solo 26 anni: il 1° agosto 1937 una sfilata piena di gente con bandiere rosse attraversa Parigi: è il suo corteo mortuario. Pablo Neruda e Louis Aragon – che la definì “una eroina” – lessero l’elogio funebre e l’artista Alberto Giacometti realizzò il monumento per la tomba, collocata al di Père Lachaise, nell’area dedicata ai rivoluzionari. Aragon, anni dopo racconterà che i parigini avevano “dato alla piccola Taro una sepoltura straordinaria, dove tutti i fiori del mondo si sono incontrati”. Sulla spalla di questo amico e poeta piangeva Endre Ernő Friedmann, il fotografo ungherese francesizzato in André Friedmann, meglio noto come Robert Capa: è inconsolabile; erano stati felici insieme: si incontrarono nel settembre del ’34 a Parigi; si innamorano e così li immortala in un caffè di Montparnasse, il Dôme, Fred Stein: radiosi, bellissimi.
Lui le aveva insegnato a usare la Leica e poi erano partiti tutti e due per la Guerra di Spagna. Lasciando ognuno il proprio nome – il suo era Gerta Pohorylle – per prenderne uno nuovo: inizialmente firmando entrambi i lavori come “Capa-Taro”; divennero un brand, tanto è vero che alcune immagini attribuite a Capa per decenni erano state scattate, invece, proprio da Gerda ma decidendo che un nome maschile, quello di Robert, poteva portare a vendere più foto. La parità di genere anche professionale è stata sempre un affare complicato, per le donne!!
I due si presero, si lasciarono, si presero e lasciarono ancora e si amarono ininterrottamente; lui per tutta la vita la chiamò “mia moglie”. Nel 1938, un anno dopo la lancinante morte di Gerda, Capa manderà in stampa Death in the Making, con molte foto scattate insieme e un palpabile segno di un’unione mai davvero tutto interrotta con un destino per certi versi simile nella fine: anche lui morirà sul campo, durante la guerra d’Indocina nel 1954, dilaniato da una mina.
La fotografa, nonostante a lungo e ingiustamente oscurata dalla fama proprio del suo compagno – che, tra l’altro, nel 1947 co-fondò l’agenzia Magnum –, dopo oltre settant’anni di sottovalutazione incomprensibile, fu riconosciuta infine pioniera della fotografia di guerra e tra le primissime donne nel settore, e fu innalzata modello leggendario; ebbene: questo libro servirà a ribadirlo, facendola conoscere in modo più massiccio al grande pubblico e a confermarla protagonista della Storia della Fotografia, del Fotogiornalismo e di una vita vera e non più come “la metà di Robert Capa”.
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