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“A PEOPLE WITHOUT THE KNOWLEDGE OF THEIR PAST HISTORY, ORIGIN AND CULTURE IS LIKE A TREE WITHOUT ROOTS.”
Marcus Mosiah Garvey Jr. (1887-1940)
Inizia una nuova rubrica qui su Kalporz (e non dite che non siamo una fucina di idee!). Emiliano D’Aniello, sulla scia di quanto il nostro scribacchino fa egregiamente in BRAINBLOODVOLUME circa la musica psichedelica, ci porterà alla scoperta della musica proveniente dall’Africa. Il che non è un genere in sé, ma una serie di uscite discografiche a cui non siamo abituati – purtroppo – a prestare la dovuta attenzione. Largo dunque alle nuove pubblicazioni e ai ripescaggi di album degli anni passati in modo da iniziare a disegnare un percorso nell’esplorazione di altre sonorità. Il titolo? Continuate a leggere e scoprirete, se non lo avete già notato, che è una citazione. Buona lettura.
SAMBA TOURÉ, “Wande” (Glitterbeat, 2018)
La Glitterbeat non si lascia sfuggire l’ultimo disco di Samba Touré, il songwriter e chitarrista maliano (nato a Timbuctu nel 1968) e sicuramente uno dei bluesman e dei prosecutori dell’opera del capo-scuola Ali Farka Touré più autorevoli degli ultimi vent’anni. “Wande”, pubblicato lo scorso 25 maggio, è il suo terzo disco pubblicato su Glitterbeat ed è stato registrato nell’autunno del 2017 presso gli aKan Studio con la produzione di Philippe Sanmiguel, già al lavoro con altri artisti del giro della label tra cui i Dirtmusic del “padrone di casa” Chris Eckman e i Tamikrest.
Il disco è stato registrato in sole due settimane: Samba ha voluto che questo suonasse in una maniera meno oscura che i suoi lavori precedenti e soprattutto in una maniera più autentica con meno sovraincisioni e lo ha presentato come un disco di musica contemporanea per quello che è in questo momento il sound del suo paese. Per la verità, va detto, se da una parte questa maggiore “naturalezza” dei suoni è evidente (prendi delle canzoni come “Irganda” oppure “Mana Yero Koy”, “Tribute To Zoumana Tereta”, dove il suono della chitarra è praticamente il “tocco” vero e proprio sulle corde di Samba) e chiaramente alimentato dall’uso delle percussioni, se escludiamo il groove rock elettrico di “Yerfara” e “Goy Boyro”, il disco ha quella fascinazione da bluesman scafato nello stile di John Lee Hooker (“Yo Pouhala”) che poi si va a fondere con il sound più tradizionale dell’Africa Occidentale come in “Mana Yero Koy” e fino a quello sciamanesimo evocativo e carico di suggestioni di pezzi come “Hawah”, la stessa “Wande”, “Hayame” (con quei tipici vorticosi giri di chitarra che hanno reso celebre il sound Tinariwen).
Il risultato è che “Wande” (idealmente dedicato alla sua “amata” cioè proprio la Zoumana Tereta cui è dedicata l’ultima canzone dell’album) pure suonando in qualche maniera con i caratteri tipici di un certo sound diffuso nel Nord-Ovest dell’Africa e e legati a quella particolare regione del continente africano, guarda in maniera aperta al resto del mondo e in quella malinconia basica del sound blues, ricerca spiragli di luce e ritrova nell’amore per la sua donna come per il suo stesso paese, conforto e “consolazione”, armonia spirituale e rivendicando del resto anche la propria appartenenza a una cultura che non è solo folklore ma invece contestualizzata all’interno di una realtà africana contemporanea e lontana dai soliti schemi comuni.
WILLIAM ONYEABOR, “Who Is William Onyeabor?” (Luaka Bop, 2013)
William Onyeabor! Signore e signori stiamo parlando di una delle figure più incredibili della storia del mondo della musica. Oltre che del vero e proprio gigante della musica funk nigeriana. Il mondo si è ricordato tristemente di lui solo lo scorso 16 gennaio 2017 quando fu trovato morto nella sua casa di Enugu in Nigeria. Aveva 70 anni. Musicista fondamentale nel mondo dell’afro-beat e probabilmente senza pari per la sua inventiva e la sua verve compositiva e il gioioso sound dei synth e delle tastiere la sua voce avvolgente, arrangiamenti che avrebbero sfondato nel mondo della Motown e il tipico groove di basso, realizza sette-otto album registrati nel suo studio casalingo a Enugu e pubblicati tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Poi si converte al cristianesimo, diventa un predicatore religioso e smette di suonare.
All’inizio del nuovo millennio il mondo occidentale si accorge di lui quando Pitchfork recensisce una compilation della Luaka Bop dedicata alla musica nigeriana degli anni settanta. La cosa scatena l’attenzione di David Byrne e comincia una specie di caccia all’uomo. Viene ingaggiata la blogger Uchenna Ikonne che impiega quasi un anno per trovare William che viene poi visitato da Eric Welles-Nystrom della Luaka Bop che lo convince alla pubblicazione di questa compilation uscita nel 2013 e universalmente celebrata con operazioni che sono oramai diventati un cliché come il documentario “Fantastic Man” di Jake Summer e una performance live (cui segue un breve) al TV Tonight Show di Jimmy Fallon a lui dedicata con un supergruppo composto da David Byrne, Money Mark (Beastie Boys), Alexis Taylor (Hot Chip), Pat Mahoney (LCD Soundsystem), Kele Okereke (Bloc Party), Dev Hynes-Blood Orange, il sassofonista Joshua Redman e il gruppo di Sinkane aka Ahmed Abdullahi Gallab.
La verità, come sempre, è che nessuno sapeva niente di William Onyeabor, né questi era in nessun modo interessato a prendere parte a questo baraccone. Chissà quante storie inventate (magari direttamente da William) nel documentario di Jake Summer, reso in maniera ancora più edulcorata con tanto di sparatoria nel mezzo della città di Enugu e la “sorpresa” del mondo occidentale davanti allo stato di povertà di uno dei paesi più popolati al mondo. Il rifiuto di Onyeabor di prestarsi a tuto quel circo mediatico è qualche cosa che merita grande rispetto: è stata una forma di rispetto nei confronti di se stesso e della sua musica (la compilation in questione è stata ovviamente “trattata” ma nel rispetto delle registrazioni originali) ma anche nei confronti del suo paese e in fondo anche della sua religione e del suo modo di avere vissuto la sua vita e in maniera coerente come musicista e poi come predicatore. Adesso già è stato dimenticato da tutti: il circo passa, la festa finisce. Però la musica di William Onyeabor rimane e anche l’Africa è ancora lì. Peccato che ce ne si ricordi solo ogni tanto.
GOLDEN DAWN ARKESTRA, “Children Of The Sun” (Nine Mile Records, 2018)
Non ho ancora capito se la storia secondo la quale Zapot Mgwana sia oppure veramente figlio di Herman Poole Blount aka Sun Ra sia vera oppure no. Del resto a quanto mi risulta Zapot non avrebbe mai incontrato quello che dovrebbe essere (stando a quanto gli avrebbe raccontato la madre) suo padre, ma ciò non toglie che in ogni caso egli lo abbia de facto in qualche modo riconosciuto come suo punto di riferimento sul piano artistico e concettuale. Ma sarebbe pure sbagliato considerare Sun Ra come l’unica influenza di questo musicista che è nato negli USA a Washington DC (dove adesso è ritornato a vivere), ma è cresciuto in Nigeria e che dopo avere già sviluppato nelle sue due prime pubblicazioni un sound jazz sperimentale acido e che comprendeva sia quella già richiamata “filosofia cosmica” che l’afro-beat di Fela Kuti, un certo funky nello stile di Isaac Lee Hayes e persino rimandi a sonorità orientali e alle colonne sonore di Ennio Morricone (che qui non mancano, vedi rispettivamente la fatalista “No One Like You” e “The Answer”).
Se tutti questi riferimenti condensati in una sola soluzione vi potrebbero sembrare in qualche maniera esagerati, allora “Children Of The Sun” non potrà che lasciarvi letteralmente a bocca aperta. Dopo avere ottenuto i meritati riconoscimenti con la bellezza di “Stargazer” e l’EP eponimo, Zapot si è evidentemente sentito in dovere di spingeresi ancora oltre per quello che riguarda il campionario delle sue proposte musicali e forse anche per rendere più accattivante il suo sound, ha scelto di rivolgersi a un produttore più “convenzionale” per il genere rock psichedelico come Erik Wofford (già precedentemente al lavoro con i Black Angels). Il risultato è che li disco suona in una maniera più riverberata e dove in alcuni momenti il sound jazz sperimentale si piega quasi a certe flessioni wave e garage come nel caso di “The Wolf” oppure di “Wings Of Ra”, che ci cala in una dimensione intermedia tra una acidità avant-jazz e “Nightclubbing” di Iggy Pop.
Momenti convincenti ma forse discutibili rispetto a quello cui eravamo stati abituati nei lavori precedenti, ma “Children Of The Sun” si riabilita immediatamente con le allegorie tropicaliste di “Lovely Day”, l’afro-beat vintage della title-track per poi spalancare direttamente le porte (della percezione) a nuove dimensioni sonore come il dub spaziale di “The Ocean”, la disco di “Cosmic Dancer” e l’ambient di “Ra-horakhti”, fino alla monumentale conclusiva “Promised Land”, una specie di magistrale opera musicale afro elettrificata e che concettualmente ci rimanda direttamente alle ideologie del giamaicano Marcus Mosiah Garvey (1887-1940) e che come il resto dei contenuti del LP dimostrano le brillanti intuizioni e qualità artistiche di un “cervello” che qui si dà una certa ripulita nel sound rispetto ai lavori precedenti e le cui capacità sembrebbero addirittura non essere state del tutto rese manifeste.
TIGRAYAN PEOPLE’S LIBERATION FRONT, “Tigrayan People’s Liberation Front no. 27” (Not On Label, 1984-1990)
Questo disco è la cosa più bella io abbia ascoltato forse in tutta la mia vita. Chiaramente questa è una affermazione molto forte e che potrebbe sembrare esagerata e naturalmente queste definizioni poi lasciano il tempo che trovano perché del resto mi rifiuto di mettere in fila dentro la mia testa ogni cosa che ascolto. Forse è anche per questo che scrivo molto. Comunque ci troviamo davanti a una registrazione di cui è difficile risalire alla fonte e di cui non è possibile purtroppo trovare concrete informazioni anche facendo un lavoro di ricerca in rete. Ciononostante non potevo non includere questa pubblicazione su cassetta di cinquantacinque minuti e le cui uniche informazioni più o meno certe sono il fatto che risale a un periodo di tempo compreso tra il 1984 e il 1990 e la provenienza geografica: la regione dei Tigrè nel nord dell’Etiopia e al confine con l’Eritrea e il Sudan, abitata da popolazioni di etnia tigrè e tigrina (la prima a maggioranza musulmana sunnita, la seconda prevalentemente cattolica) e con una storia difficile e particolarmente sanguinosa per quello che riguarda la seconda parte dello scorso secolo in particolare e apparentemente conclusasi con un arbitrato nel 2002 che avrebbe sancito la fine della guerra Etiopia-Eritrea.
Ma la storia del TPLF ovvero The Tigrayan People’s Liberation Front risale a molti anni prima e in particolare agli anni settanta quando allo scoppio della guerra civile in Etiopia, questo si oppose al colpo di stato della giunta militare del Derg che depose Hailé Selassie e diede il via a una serie inarrestabile di conflitti e la contemporanea invasione da parte della Somalia e il coinvolgimento di forze internazionali nell’ambito della guerra fredda. Inizialmente una organizzazione para-militare, nel 1989 il TPLF entrò a far parte del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope che nel 1991 mise fine alla dittatura di Menghistu Hailè Mariàm.
Contestualizzare storicamente queste registrazioni è l’unica cosa che possiamo fare per provare a risalirne alle origini. Ma quello che conta nella specie in questo caso sono i contenuti musicali e posso dire che difficilmente potrete ascoltare qualche cosa di così intenso e di coinvolgente. Parliamo di una regione che è praticamente la culla dell’uomo e c’è qualche cosa di primordiale in queste registrazioni il cui suono è praticamente una commistione tra sonorità tribali africane e melodie orientali e sperimentalismi jazz all’avanguardia: invece che di afro-beat verrebbe quasi da pensare ai raga indiani, ripetizioni cicliche e ipnotiche ma dove la flessione dei toni tipicamente “afro” è comunque inevitabile e dove soffia forte il vento che proviene dal bacino del Mediterraneo. Ipnotico, ricco di immagini caleidoscopiche e evocative, canti meravigliosi e cori, la qualità delle registrazioni è nonostante tutto rimasta intatta nelle diverse versioni reperibili sul web e se non è così perfetta come si pretenderebbe questo lo si può solo considerare un pregio invece che un difetto, quasi conferisce a questi suoni qualche cosa di ancora più viscerale che il contatto con la storia in tutte le sue manifestazioni, violente oppure meravigliose che siano. Intenso.
FEMI KUTI, “Africa For Africa” (Wrasse Records, 2010)
Femi Kuti, un grande musicista e attivista cui forse non si riconoscono i giusti meriti e la grande bravura perché in qualche maniera diciamo oscurato dalla figura gigantesca del padre, che del resto si può a ogni titolo considerare come uno dei personaggi più importanti della storia musicale africana dello scorso secolo e di tutti i tempi. Quando morì, nell’agosto del 1997, al suo funerale a Lagos in Nigeria presero parte più di un milione di persone e la sua ombra lunga è qualche cosa di cui in qualche modo Femi ha cercato comunque di liberarsi e questo non perché non fosse devoto al padre, ma perché dopo avere mosso proprio al suo fianco i primi passi come musicista, ha deciso di provare a prendere una propria strada. Ci ha messo un po’ sicuramente per arrivare ma è pure vero che ha cominciato molto presto dato che a quindici anni suonava già il sassofono nella band del padre.
La sua carriera è in qualche maniera rinata alla fine dello scorso decennio. In verità Femi aveva passato un periodo molto difficile e si era completamente ritirato dalle scene dopo gli anni passati negli Stati Uniti e che peraltro avevano cominciato vederlo affermarsi con un certo successo. Ricominciare da Lagos in Nigeria gli ha dato nuovo vigore: prima “Day By Day” nel 2008 e poi questo “Africa for Africa” (due nomination per il Grammy) lo hanno rilanciato a pieno titolo e gli hanno dato il giusto posto nella storia della musica afro-beat. “Africa for Africa” è un disco chiaramente pieno di componenti di natura ideologica e che usciva praticamente poco prima delle elezioni del 2011 in Nigeria e in un momento in cui la corruzione nel suo paese si poteva definire dilagante a tutti i livelli. È il disco con cui Femi si autodetermina come un vero ambasciatore non solo del suo paese ma di tutto il continente africano e cui dedica effettivamente questo disco che poi vuole essere a suo modo sia un omaggio all’Africa come a tutti i grandi del passato che hanno reso ogni africano orgoglioso di rivendicare la propria appartenenza.
Il sound, chiaramente devoto ai miti del jazz americano, che poi erano gli stessi che avevano in qualche modo ispirato anche suo padre, è di una intensità incredibile, “Africa for “Africa” (un doppio LP chiaramente al di là di ogni ottica commerciale)dall’inizio alla fine è carico di groove e di suoni potenti e ipnotici: il sound delle tastiere è assolutamente spaziale e la verve di Femi incontenibile sia quando suona il sassofono che quando canta e in questa moltitudine di suoni che definirei poderosa (i musicisti che prendono parte alle registrazioni sono innumerevoli) si erge sempe assumendo un ruolo da protagonista. Un confronto diretto in questo senso potrebbe essere forse poco ortodosso: la sensazione è di sentire un boogie di John Lee Hooker in una dimensione che è intanto amplificata dal suono di un’orchestra, ma allo stesso tempo completamente acida e mentre si prende parte a una specie di rito voodoo. E del resto è praticamente impossibile ascoltare questo disco restando fermi. Siamo come tarantolati.
FEMI KUTI, “One People One World” (Knitting Factory Records, 2018)
Idealmente “One People One World” (Knitting Factory Records) è il successore di “Africa For Africa”, di cui in buona sostanza riprende gli stessi contenuti ideologici e di natura sociale e politica. Anche per questo forse è stato criticato perché ripetitivo, ridondante sia sul piano musicale che dal punto di vista concettuale. Del resto anche in questo caso infatti Femi Kuti, seguendo peraltro una linea già intrapresa dal padre, prosegue quello stesso percorso di denuncia contro la corruzione in Nigeria e in tutto il continente e con ancora maggiore forza e convinzione richiama (facendo il verso a quel ciccione arrogante di Donald Trump, “Africa Will Be Great Again”) i popoli africani a unirsi in una lotta comune per l’emancipazione. Un perseverare nella causa che secondo molti sarebbe in qualche maniera oltre che ripetitivo anche causa di frustrazioni, dato che le cose continuino a essere le stesse, ma secondo il mio punto di vista invece un tema che continua a essere centrale, e che può apparire “facile” o persino evidente, da un’ottica esterna, ma che non è esattamente sentito come si dovrebbe da parte delle popolazioni africane.
I colonizzatori europei e poi dopo USA e URSS durante gli anni della guerra fredda, hanno infettato l’intero continente con quella politica tipica del “dividi et impera” e che ha chiaramente creato situazioni difficili da sanare negli anni, oltre che diffondere una cultura di guerra e odio e banditismo. Lo stesso è successo e succede in Medio Oriente dove in alcuni posti intere generazioni sono cresciute senza mai sapere che cosa sia la pace. Come si può ritenere che questo non sia condizionante?
Sotto questa ottica non si possono considerare i contenuti di questo disco quindi come superati almeno sul piano concettuale, mentre si può sicuramente considerare come rispetto a altre produzioni discografiche dello stesso Femi Kuti (anche lo stesso “Africa For Africa”), questo album manchi di una certa verve e di potenza espressiva. Suona forse in qualche maniera anche come ripetitivo? Sicuramente se siete dei fan di lunga data di questo musicista potreste anche arrivare a questo tipo di considerazione. Ma la verità è che in fondo egli stesso ci appare in qualche maniera stanco o forse chiedere troppo a se stesso con un altro disco che si compone di 12 tracce che sono una miscela di afro-beat, funk, soul e persino quel sound “salsa” che alla fine si fa sempre sentire tra le cosiddette righe. L’idea che mi sono fatto in definitiva è che forse non gliene importi più di tanto di lavorare a dischi in studio. Del resto riconoscimenti da questo punto di vista ne ha già ottenuti e in qualche modo arrivando a “giustificare” la pesante eredità ricevuta dal padre: per un attivista ha molto più senso suonare dal vivo che restare chiuso in uno studio. Una specie di energia che ha bisogno di essere liberata in uno spazio aperto e non a caso condivisa.
SIDI TOURÉ, “Toubalbero” (Thrill Jockey Records, 2018)
Il maliano Sidi Touré (nato a Gao nel 1959) non è solo uno dei nomi principali per quello che riguarda la musica proveniente dal continente africano e in particolare da una delle scene più interessanti e che sono state maggiormente attenzionate negli ultimi anni, cioè quella di Bamako nel Mali, ma probabilmente anche uno dei musicisti più abili proprio sul piano tecnico e per quello che riguarda il padroneggiare lo strumento (la chitarra) e anche per quello che riguarda l’uso della voce e la conoscenza delle tradizioni della etnia Songhai, una popolazione una volta a capo di un glorioso impero durato nei secoli e che oggi vive tra il Mali e il Niger e svolge prevalentemente l’attività di agricoltori lungo le rive del fiume Niger. Da un continente all’altro, dalle rive di un fiume, specificamente quelle del Mississippi, a un altro, proprio lungo le rive del Niger si è sviluppato quel sound tipico di questo musicista e che viene genericamente definito con quella definizione di “desert blues” che poi di recente è stata rifiutata in maniera netta dal suo quasi omonimo Samba Touré, che rivendica invece una contestualizzazione più moderna del suo suono e forse vuole anche in qualche modo slegarsi da determinati cliché e luoghi comuni.
“Toubalbero” è il suo quarto disco su Thrill Jockey Records e introduce sostanziali novità nel suono di un musicista già affermato e che entra con questo album in una nuova fase. Intanto il suono è evidentemente più gioioso e allegorico, ballabile e carico di visioni rispetto alle atmosfere cupe del passato e in cui Sidi era chiaramente condizionato anche dalla difficile situazione del suo paese, che viveva una fase particolarmente drammatica; secondariamente questo si può considerare a tutti gli effetti come il suo primo album “elettrico” e registrato in un vero e proprio studio, il Bogolan di Bamako e dove hanno registrato negli anni Ali Farka Touré, Rokia Traoré, Toumani Diabate e artisti internazionali come Bjork. Senza considerare il fatto che lo stesso è stata la base da dove ha preso il via un grosso pezzo di storia della Glitterbeat (Dirtmusic, Tramikrest…). Con una mescolanza di strumenti a corde della tradizione maliana e mescolanza di suoni acustici ed elettrici, uno spettacoloso utilizzo dei percussioni, ritmi coinvolgenti e carichi di energia, “Toubalbero” è un disco di sicura efficacia e che si propone come uno dei capitoli più interessanti nel genere “elettro-acustico” a livello internazionale.
(Emiliano D’Aniello)