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“I never lost hope that this great transformation would occur. Not only because of the great heroes I have already cited, but because of the courage of the ordinary men and women of my country. I always knew that deep down in every human heart, there is mercy and generosity. No one is born hating another person because of the color of his skin, or his background, or his religion. People must learn to hate, and if they can learn to hate, they can be taught to love, for love comes more naturally to the human heart than its opposite. Even in the grimmest times in prison, when my comrades and I were pushed to our limits, I would see a glimmer of humanity in one of the guards, perhaps for just a second, but it was enough to reassure me and keep me going. Man’s goodness is a flame that can be hidden but never extinguished.” Nelson Mandela (1918-2013)
Arriva la seconda puntata dedicata all’approfondimento della musica proveniente dall’Africa. Il primo capitolo potete recuperarlo qui.
PIERRE SANDWIDI, “Le Troubadour De La Savane 1978-1980” (Born Bad Records, 2018)
L’etichetta francese Born Bad Records è una delle realtà discografiche che più mi stanno entusiasmando in questi ultimi mesi. Al di là della produzione di nuovi dischi di artisti e gruppi che sono veramente dei piccoli gioielli di musica pop oppure rock (J.C. Satàn, Vox Low, Forever Pavot, Marietta), il ripescaggio di alcuni lavori di annata da Pierre Vassiliu a Bernard Estardy ha costituito per me dei momenti di vera e propria rilevazione. Ecco così che poi sono arrivato ad ascoltare questa raccolta dedicata a Pierre Sandwidi. “Le Troubadour De La Savane” è praticamente una raccolta di sue registrazioni che risalgono al periodo dal 1978 al 1980. Ma chi era effettivamente Sandwidi? Pierre, “le troubador de la savane”, nasceva nel 1947 a Boulsa in quello che una volta veniva chiamato Alto Volta e oggi si chiama Burkina Faso. Influenzato da G. G. Vickey (figura fondamentale nel mondo della musica africana) comincia a suonare la chitarra e comincia a lavorare alla radio. A questo punto entra a fare parte del movimento musicale “vedettes en herbe”, le sue canzoni cominciano a girare nella radio nazionale e lui comincia a girare il paese accompagnando alla sua attività come musicista, quella di sindacalita per il Partito dell’Indipendenza Africano e impegnato nel difficile contesto economico e sociale del suo paese, denunciando la politica del generale Lamizana. Vicino alla classe operaia e quella degli agricoltori, Sandwidi è tra le figure culturali di spicco a sostegno della presidenza del rivoluzionario burkinabè Thomas Isidore Noel Sankara, ma dopo l’attentato del 1987 prese definitivamente le distanze dalla politica.
La raccolta è la testimonianza della sua bravura come musicista e compositore eclettico e che si ispirava a quello stesso panafricanismo che poi nel suo paese si identificò nel movimento e nella figura di Sankara. Sicuramente Sandwidi fu un’idealista, ma allo stesso tempo era una persona perfettamente concentrata nel suo tempo e nel suo contesto e così era la sua musica che era allo stesso tempo una musica dai contenuti sociali, quanto ascoltabile e dotata di un certo groove afro-beat mescolato a influenze afro-cubane e tropicali e alla tradizione musicale burkinabè e dell’Africa Occidentale sub-sahariana. Questo gli permise di attraversare anche i confini nazionali e ottenere riconoscimenti della sua bravura in tutta l’Africa sub-sahariana e anche oltre. In Burkina Faso è considerato come una specie di eroe nazionale e quando è morto, vent’anni fa, il suo funerale fu un momento condiviso dall’intera nazione. L’uso tipico del sound beat delle tastiere, l’ispirazione al panafricanismo e una certa forma di rastafarianesimo, il suono delle percussioni e quella chitarra quasi “sudamericana” danno al suono una impronta inconfondibile e che ha fatto scuola e che ancora oggi è irresistibile. Cantava in francese e un paio di suoi pezzi come “Lucie” furono dei veri e propri successi. Insomma, sinceramente non vedo nessuna ragione per la quale non dovreste buttarvi su queste registrazioni a piene mani.
SONS OF KEMET, “Your Queen Is A Reptile” (Impulse!, 2018)
Questo disco è stato accolto molto positivamente un po’ dappertutto e non mi stupirebbe se alla fine dell’anno rientrasse in molte classifiche non solo limitate all’universo dedicato al jazz oppure a quella che viene generalmente definita (impropriamente) come “world music”. I Sons Of Kemet sono il complesso di Shabaka Hutchings, trentasettenne sassofonista, nato e residente a Londra, ma cresciuto alle Barbados dove ha cominciato a studiare il clarinetto e ha ovviamente assimilato quella cultura caraibica in cui ha poi riconosciuto le sue origini afro (coltivate con una conoscenza diretta del Sud Africa) e di cui ha poi fatto la componente centrale del suo sound. Già collaboratore di gruppi e realtà multi-culturali e sperimentali come Heliocentrics e Sun Ra Arkestra (ma anche di The Comet is Coming, Melt Yourself Down, The Ancestors), con questo album pubblicato dalla mitica e influente etichetta Impulse! probabilmente Hutchings raggiunge per ora la vetta più alta della sua carriera come musicista e compositore. Nel disco sono presenti una serie di musicisti di eccezione e che fanno parte di questo incredibile “combo”, tra cui va sicuramente menzionato Theon Cross, elemento centrale del progetto e il cui contributo alla tuba è praticamente fondamentale. Ma è impossibile non menzionare una figura di spicco come quella di Congo Natty aka Rebel MC, uno dei pionieri del genere jungle, così come il poeta “slam” Joshua Idehen, due artisti la cui collaborazione può forse dare una idea dei contenuti eterogenei di un album che ha peraltro una forte componente ideologica e culturale.
Siamo peraltro nell’Inghilterra della Brexit e scrivo queste righe all’indomani della visita di Donald Trump nel Regno Unito e nello stesso giorno del centenario di Nelson Mandela e in cui Barack Obama ha tenuto un significativo discorso a Johannesburg respingendo ogni forma di autoritarismo e quelle cosiddette figure di “uomini forti” e in contrapposizione con la figura di Madiba, il padre del Sud Africa e una delle figure centrali tra quelle che nello scorso secolo si sono battute per una democrazia multi-razziale e fondata sui principi di eguaglianza e giustizia. Inevitabile quindi in un disco di contaminazioni tra diversi generi, a partire dal jazz cosmico all’afro-beat e a sound caraibici, fino al dub e inserito in questo contesto, incrociare anche forte componente ideologica che poi è quella che si sviluppa nell’intero concept di “Your Queen Is A Reptile” e poi nelle dediche alle diverse regine del disco, che chiaramente non hanno niente a che fare con la corona d’Inghilterra, ma sono di volta in volta figure come lo psicologo sociale Phipps Clark, la regina Ashanti Yaa Asantewaa, l’attivista anti-apartheid Albertina Sisilu…
Ci troviamo quindi davanti a un disco che è allo stesso tempo incredibilmente potente (da segnalare la presenza contemporanea nella maggioranza delle tracce di due batteristi) e allo stesso tempo dotato di un groove irresistibile e la cui ricchezza di suoni per Hutchings è una specie di volontà di raccogliere tutto il patrimonio di quello che è un lungo percorso della storia della musica jazz che lui ha dovuto compiere all’incontrario, riscoprendone le origini e così imparando anche qualche cosa in più su se stesso e il mondo che ci circonda: un patrimonio incredibile e che adesso è raccolto e rappresentato in una vera e propria autentica “scala reale”. Giù il cappello.
FRANCIS BEBEY, “Ballades Africaines” (Ozileka, 1978)
Probabilmente poco ricordato, Francis Bebey è stato sicuramente una specie di iniziatore per quello che riguarda la diffusione della musica africana in occidente. Nato in Camerun nel 1929, Francis Bebey fu un musicista e uno scultore e soprattutto un poeta. Si trasferì a Parigi e poi a New York negli anni cinquanta dopo avere studiato matematica a Douala. Il suo primo disco uscì solo nel 1969 e sin dal principio furono evidenti le componenti del suo metodo compositivo, completamente incentrato sul suono della chitarra e dedicato a riprendere e diffondere l’immenso patrimonio culturale del continente africano. Se stilisticamente sul piano musicale si può considerare la sua tecnica chitarristica come il punto di incontro tra la ripresa di determinate sfumature del suono africano e in particolare di quella regione occidentale e la musica più popolare francese di quegli anni. Il suo “tropicalismo” è parte tanto quanto delle sue radici culturali quanto poi di quello stesso filtrato centinaia d’anni dopo dalla bossa nova in Brasile e approdato in Europa tra gli anni cinquanta-sessanta.
Francis Bebey cantava in francese: una scelta precisa già allora e che chiaramente apriva a una platea di riferimento più ampia. “Ballades Africaines” (1978) è un disco fondamentalmente di sonorità tropicali e bossa nova. Composto di sei tracce, la maggior parte di queste hanno una durata tra i sette e gli otto minuti e si alternano pezzi solo strumentali con altri che più che cantati direi che sono semplicemente interpretrati da Bebey , che in questo disco registrato a Parigi nel 1978 attinge a piene mani nel patrimonio del continente africano riprendendo poemi del primo presidente senegalese della storia Léopold Sédar Senghor; dello scrittore ivoriano Bernard Dabié; del poeta Birago Diop. Lontana da qualsiasi forma di recitazione solenne oppure espressionista o teatrale, come poi diffusa in occidente sin da quegli anni e poi in fondo sulla scia del talking blues, quelle di Bebey sono interpretrazioni recitative che ci rimandano direttamente alla canzone francese di quegli anni. L’uso della voce è avvolgente, quanto caldo e suggestivo, direi “pieno” (ma pensate pure a Piero Ciampi per quello che riguarda il nostro paese) e talvolta anche con una certa caratterizzazione onomatopeica che rende ancora di più il calore umano di quel pezzo di Africa. Africano e allo stesso tempo francese prima che ci si ponesse la questione dell’immigrazione in maniera massiva come oggi, Bebey fu un punto di riferimento e fu anche consulente per l’UNESCO. Un vero e proprio modello per molti: un autore da riscoprire o eventualmente da scoprire.
HAILU MERGIA, “Lala Belu” (Awesome Tapes From Africa, 2018)
Per gli appassionati di ethio-jazz Hailu Mergia non ha bisogno di presentazioni. Il maestro fisarmonicista e tastierista e celebre compositore e arrangiatore è una figura storica per il genere e uno dei fondatori della mitica Walias Band, la band etiope jazz e funk formatasi all’inizio degli anni ’70 ad Addis Adeba. Di casa presso l’Hilton Hotel, dove suonavano continuamente dei set per coprire l’intera fascia del “coprifuoco” dovuto al regime militare, quando nel 1981 visitarono gli USA in tour con il vocalist Mahmoud Amhed, Mergia decise di non fare ritorno in Etiopia, rimase negli Stati Uniti d’America come rifugiato e cominciò a lavorare come tassista a Washington DC. Per molti anni non si è più parlato di lui finché l’ethio-jazz non è stato in qualche maniera riscoperto alla fine degli anni novanta. Poi Jim Jarmusch inserì un suo pezzo nella colonna di “Broken Flowers”… Insomma tutta una serie di circostanze finirono fortunatamente con il rilanciare questo grande musicista e che ha sempre avuto un suo stile e una visione particolare della musica e relativamente l’ethio-jazz di carattere ipnotico e chiaramente incentivata dal suo modo peculiare di suonare sia la fisarmonica quanto le tastiere, che padroneggia egualmente in maniera egregia.
Registrato con il bassista australiano Mike Majkowski e il batterista Tony Buck, “Lala Belu” è stato pubblicato in marzo dalla Awesome Tapes From Africa. Registrato agli EMS4 Studios di Londra e poi negli USA con l’assistenza di Javon Gant, il disco contiene sei tracce di ethio-jazz acido e easy-listening. Tutti arrangiati secondo disposizioni di Mergia, tre pezzi sono inediti, mentre altri tre come “Tizita”, “Gum Gum” e “Anchi Hoye Lene” sono dei brani tradizionali ripresi per l’occasione e forse quelli più tipici e che riprendono il groove autentico del genere. Ma gli inediti sono anche molto interessanti, a partire da “Addis Nat” con l’uso tipico di Mergia del suono della fisarmonica come delle tastiere che è allo stesso tempo tanto esotico quanto acido e misterioso, quasi come se avesse dei caratteri di una certa wave intellettuale; “Lela Belu” è invece un piacevolissimo pezzo cantato (l’unico del disco) che potrebbe essere persino passato anche alla radio, mentre nella conclusiva “Yekfir Engurguro” Mergia dà prova anche di essere un brillante pianista e si conferma musicista eclettico. Così come eclettico è lo stile compositivo alla base di questo disco che sinuosamente ti entra dentro e ti coinvolge rasserenandoti e facendoti rilassare ogni singolo muscolo del tuo corpo.
AKALÉ WUBÉ, “Akalé Wubé” (Clapson, 2010)
Questo collettivo si può considerare come l’epigono francese dei nostri Al Doum & The Faryds. Il gruppo si chiama Akalé Wubé (in lingua aramaica significa semplicemente “bellezza dell’anima) ed è composto interamente da musicisti francesi che riprendono la musica della tradizione del funk e jazz etiope degli anni sessanta, una scena musicale che ultimamente sta avendo una certa riscoperta seppure non a livello mainstream, ma comunque influenzando in maniera trasversale musicisti di diversi generi. Il gruppo (David Georgelet, Etienne De La Sayette, Loic Rechard, Oliver Degabriele, Paul Bouclier) si forma quindi a Parigi nel 2009 dopo essere rimasto folgorato dall’ascolto di una compilation sull’ethio-jazz pubblicata dalla Buda Musique. Pubblica il primo disco solo l’anno successivo sulla Clapson, che poi sarebbe l’etichetta di proprietà della band, ricevendo pure attenzioni varie da Rolling Stone oppure dalla BBC e effettivamente queste sono tutte meritate: il disco è un piccolo gioiello di musica jazz caratterizzato dal tipico groove afro-beat che si fa dirompente grazie all’uso poderoso dei fiati e quello vibrante delle tastiere.
I suoni sono usati in maniera intelligente e mai massiva e allo stesso modo sono distribuiti nell’album diversi momenti che riprendono la lunga tradizione del genere: non mancano accenni di caldo tropicalismo (“Ayalqem Tèdèngo”), accelerazioni garage più sperimentali come “Nebyat” e momenti di minimalismo jazz vintage come “Mètché Nèw” e fino alle depressioni dub tipo “Kokob/Mètché Dershé” che sono veramente gradevolissime e danno al disco una certa dimensione allucinata che traspone l’opera su di un piano estraneo a qualsiasi collocazione geografica e che ti fa letteralmente sognare.
DWARFS OF EAST AGOUZA, “Rats Don’t Eat Synthesizers” (Annihaya/Akuphone, 2018)
Quando due anni fa mi capitò tra le mani il loro primo LP (“Bes”, Nata Recordings) sono rimasto semplicemente senza parole. Da dove diamine uscivano fuori questi Dwarfs Of East Agouza? Il loro sound era assolutamente privo di alcuna forma definita e imprevedibile, un misto tra tribalismo allucinato e visionario e forme di free-form chitarristiche degne dei momenti più provocatori di Mayo Thompson. La copertina, che vedeva tre nerboruti e “cazzuti” mostriciattoli verdi impegnati in una specie di danza rituale, completava il quatro della situazione, rendendo tutto ancora più accattivante. Poi ti vai a cercare qualche informazione e scopri che questo trio questo trio è in verità composto da tre musicisti d’eccezione e che quella contaminazione di suoni così spettacolare e variegata non è affatto casuale, ma il risultato di un lavoro assennato e affatto improvvisato nella sua natura, data la formazione storica dei tre soggetti in questione.
Dwarfs Of East Agouza è un progetto che funge da giusto trade-union tra la tradizione musicale del Nord Africa (in particolare: Egitto) ma spinta alle sue massime conseguenze e senza nessuna rievocazione di inutile folklorismo e la rivisitazione el progressive privo di forme predefinite che si è sviluppata negli anni proprio a partire da esperienze come Red Krayola per poi compiersi negli anni novanta in forme diverse con musicisti incredibili come David Grubbs e Jim O’Rourke e gruppi come i Sun City Girls dei fratelli Bishop. Ed è proprio Alan Bishop, fratello meno noto del mitico Sir Richard Bishop, la guida del progetto (nato quasi per gioco una notte nel 2012 a Il Cairo, quartiere di Agouza), che si completa con Osama Shalabi, musicista sperientale di base a Montreal e già collaboratore anche di gruppi come A SIlver Mt. Zion, e il compositore egiziano Maurice Louca.
“Rats Don’t Eat Synthesizers” è il seguito di “Bes”: il disco è stato registrato a Il Cairo nel 2014 con l’assistenza di Mahmoud Refat ed è uscito sia per l’etichetta libanese Annihaya Records che per i francesi della Akuphone. Con questo secondo capitolo della loro discografia, i Dwarfs si spingono se possibile, ancora oltre quella soglia già superata nel primo album. “Rats…” si compone infatti di sole due lunghe composizioni: la prima traccia eponima che è uno scatenato tribalismo dronico di tredici minuti. Costruita su una spettacolare struttura di percussioni e un tappeto di synth che chiaramente rievoca sonorità calde e mediterranea, il pezzo è letteralmente esaltato dal sound della chitarra elettrica di Sam Shalabi e rafforzato dal groove del basso di Alan. Ripetitivo fino all’eccesso, il pezzo rievoca dimensioni allucinate degne di “Apocalypse Now”, ma contestualizzato nel deserto del Sahara, quella vasta area di confine naturale che una volta (ma anche oggi) spezzava in due parti il mondo conosciuto per quella impossibilità oggettiva di valire quelle dune di sabbia senza rischiare la propria via. Dune che ci sembra quasi di cavalcare sulle onde di “Ringa Mask Koshari” dove dominano in una forma di espressionismo no-wave il sound della chitarra in uno stile perfettamente Sun City Girls e la sezione di fiati di Alan Bishop che paga pegno a musicisti come John Lurie e i suoi Lounge Lizards. Semplicemente spettacolare e di marcato impatto visivo, “Rats Don’t Eat Synthesizers” non è forse il disco pù easy-listening del mondo, ma questo conta poco, lo amerete da subito.
AFRO-HAITIAN EXPERIMENTAL ORCHESTRA, “Afro-Haitian Experimental Orchestra” (Glitterbeat, 2016)
Se qualcuno mi chiedesse un suggerimento su che musica ascoltare, avrei pochi dubbi: recupera tutto il catalogo della Glitterbeat, perché non c’è neppure un solo disco (dico neppure uno) che non valga almeno la pena di essere ascoltato. E molti di questi sono dei veri e propri capolavori e dei momenti unici nella storia della musica internazionale. Come definire altrimenti un progetto come la Afro-Haitian Experimental Orchestra? Forse prima di entrare in medias res va fatta una precisazione. Lo dico perché in questa epoca di oscurantismo (viviamo veramente una fase negativa della nostra storia, non sottovalutate questa cosa, solo così ne potremo uscire fuori) e di negazionismo, il prossimo presidente del Brasile, mentre ieri è stata formalizzata ufficialmente la candidatura di Lula, la figura più importante della storia della sinistra sudamericana con buona pace di molti rivoluzionari e romantici, rischia seriamente di essere un personaggio oscuro come Jair Bolsonaro, ex militaro e appartenente alla estrema destra. Legato a Trump e i partiti sovranisti europei, durante la campagna elettorale si sta succedendo in una serie di dichiarazioni culminata nel negazionismo della schiavitù degli africani nell’America Latina, definiti come degli immigrati volontari, una affermazione che è pari se non di portata superiore a quelle che negano l’esistenza dell’olocausto.
La storia ovviamente è molto diversa ed è una storia terribile, non penso ci sia bisogno di ricordare di che cosa parliamo (in caso contrario ci sarebbe veramente da preoccuparsi): gli africani furono in massa trasportati dal loro continente attraverso l’Atlantico e in ogni parte del continente americano. C’è una linea diretta che lega Haiti e il continente africano, è una questione di sangue e a parte il coloro delle pelle, gli usi e i costumi, le tradizioni sono una prova di questo legame e quella più evidente anche a così tanti chilometri di distanza, restano le radici musicali. Tutti i generi sviluppatisi nell’America Latina, pure il tango, vengono come tutto quello che esiste su questo pianeta, direttamente dall’Africa. Questo vale ancheper le sonorità caraibiche e questo disco ne è una prova oltre che una dimostrazione massiva di forza di un ensemble unico e messo in piedi in maniera appunto “sperimentale” da Corinne Micaelli, direttore dell’istituto francese ad Haiti e capitanato da Tony Allen, una figura gigantesca e chiave nella storia e diffusione dell’afro-beat, storico batterista e collaboratore di Fela Kuti e ancora oggi attivo a tempo pieno in diversi progetti suoi personali come allargati nella dimensione di vero e proprio “supergruppo”. Così come possiamo definire questo ensemble di cui fanno parte tra l’altro Erol Josué, cantante e sacerdote voodoo e direttore dell’Istituto haitiano di etnografia, che ha poi praticamente arruolato tutto il meglio dei musicisti dell’isola caraibica in circolazione; il chitarrista Mark Mullholland, il tasterista Olaf Hund e il bassista Jean-Philippe Dary ALlen.
Entrare nalla singola descrizione di ogni pezzo sarebbe persino superfluo. Parliamo chiaramente di quel classico afro-beat di marca nigeriana e derivato dalle esperienze Fela Kuti, ma la contaminazione con quel voodoo delle isole caraibiche e una certa dimensione dub e ossessiva, fanno di questo disco un pezzo unico, così come è stato uno solo il concerto tenuto dalla AHE nella piazza principale di Port-au-Prince e poi trasmesso in diretta in tutto il mondo e non in una situazione politica e sociale molto semplice, tanto che il concerto fu infatti sospeso brevemente dopo un lancio di fumogeni.
Eppure questo dà solo una valenza maggiore a questo disco che riprende il sound Fela Kuti, come l’immaginario Sun Ra e quella febbre che ti fa pensare alle visioni di Burroughs ne “La città della notte rosse”: tutte percezioni autentiche, viscerali. Non escono così spesso dischi belli e importanti come questo: non lasciatevelo sfuggire per nessuna ragione al mondo.
(Emiliano D’Aniello)