Share This Article
“I felt free and therefore I was free.”
(Jack Kerouac, 1922-1969)
SUNWATCHERS, “Basement Apes Vol. 1” (Drones Against Drones Music, 2018)
Questo qui è un altro gruppo fantastico e che pure come avevo scritto de gli Our Solar System, qui si supera rispetto alle pubblicazioni precedenti, raggiungendo delle vette elevatissime sul piano musicale e sia per quello che riguarda gli aspetti compositivi che il piano più espressamente sperimentale. I Sunwatchers sono un quartetto forse ingiustamente ancora poco celebrato e composto da Peter Kerlin, Jim McHugh, Jason Robire e Jeff Tobias. Il gruppo è perfettamente inserito in uno dei contesti più storicamente all’avanguardia sul piano della sperimentazione come la città di New York e in particolare si è sviluppato attorno a quel giro di musicisti che fanno capo a Chris Forsyth e la sua Solar Motel Band e comunque raccogliendosi attorno al movimento intellettuale più di sinistra della “grande mela” dichiarandosi apertamente come un colettivo musicale di sinistra e anticapitalista e presentando questo nuovo lavoro come un manifesto a favore di tutte i dispersi, gli impoveriti e gli sconfitti del mondo.
“Basement Apes Vol. 1” per ora è stato pubblicato solo su cassetta e in formato digitale e segue solo di un paio di mesi la pubblicazione del secondo LP del gruppo (“II”, Trouble In Mind Records) introducendo tuttavia l’ascoltatore in una dimensione differente. Se “II” era effettivamente un lavoro più riconducibile a dei canoni stilistici sicuramente particolari, ma che tra il fusion e elementi di psichedelia e esperienze post-punk e no wave e componenti esotiche come l’afro-beat, poteva rimandare a Sun Ra come ai contemporanei Golden Dawn Arkestra, gli italiani Al Doum & The Faryds di Davide Domenichini, questo disco qui (che poi è una raccolta di registrazioni in diverse location, tra cui anche una in Germania ad Amburgo) si presenta sin dal principio come una monumentale opera di drone-psychedelia e dove quell’avant-jazz marchio di fabbrica del gruppo si spinge verso vette espressioniste sperimentali e dilatazioni sonore che assumono connotati tra la kosmische musik e le visioni sufi Brian Jones con i Master Musicians of Joukouka fino a esplodere in un fragore Velvet Underground “White Light White Heat” e schizzati remixaggi loop.
Registrato con la collaborazione di tutta una serie di guest a seconda delle diverse sessioni, va segnalato in particolare il contributo di David Watson che suona la cornamusa in “The City Gates” e il lavoro incredibile di Jason Trahan so “Loop #2”. Potrebbe sembrare una presentazione minore, forse secondo quelle che sono le definizioni di “forma” lo è, ma i suoi contenuti sono semplicemente straordinari. Un disco imperdibile.
ZUIDER ZEE, “Zeenith” (Light In The Attic, 2018)
Questi ripescaggi sono qualche cosa che mi fa letteralmente impazzire. Mi domando come sia possibile che dei dischi bellissimi come questo siano rimasti sepolti per tanti anni e non abbiano mai visto prima la luce. Poi chiaramente non posso che gioire e godere dell’ascolto e soprattutto quando come in questo caso ci troviamo davanti a un disco bellissimo. Gli Zuider Zee erano un quartetto di musica pop-rock psichedelica proveniente da Memphis nel Tennessee. Capitanato da un grande scrittore di canzoni e musicista come Richard Orange (voce e chitarra), il gruppo era completato da John Bonar al basso, Kim Foreman alle tastiere e Robert Hall alla batteria e pubblicò un solo LP eponimo nel 1975 prima di essere più o meno dimenticato.
In verità il problema fu che gli Zuider Zee non furono supportati in maniera adeguata dall’etichetta discografica. Chi racconta le cose è lo stesso Richard Orange: praticamente la Columbia Records non fece mai girare i loro pezzi in radio e il promo del loro LP fu pubblicato con un nome sbagliato (“Zuider Lee”). Tagliati fuori dal contesto musicale tipico nel sud degli USA in quel periodo, la fine del gruppo fu inevitabile e il secondo LP “Zeenith”, registrato tra il 1972 e il 1974 non vide mai la luce. Oggi viene finalmente pubblicato dall’etichetta Light In The Attic di Seattle e recuperato direttamente dai nastri originali del producer e ingegnere del suono John Baldwin. Il disco contiene dodici pezzi che faranno letteralmente impazzire i fan di Marc Bolan e i T. Rex come quelli di Big Star, The Kinks e soprattutto John Lennon e i Beatles. A proposito di John, dice Richard Orange (che racconta anche di quella volta che nel 1978 la band suonò come spalla dei Pistols – che definisce semplicemente come “banali” – alla Taliesyn Ballroom di Memphis) che una sera ricevette una telefonata di Rick Nielsen dei Cheap Trick che voleva complimentarsi con lui:
“Amico, sei così dannatamente bravo.” Gli dice. “Sai dove ho trovato il tuo numero di telefono? Era nell’elenco appena sotto quello di John Lennon alla voce “Fottuto John Lennon Richard”.” Rock and roll!
ANTRHOPROPHH, “Omegaville” (Rocket Recordings, 2018)
Un oggetto amorfo, come suggerisce lo stesso nome della band, alieno, privo di qualsiasi forma che sia in qualche maniera riconoscibile e identificabile. Parlerei di free-form, ma i riferimenti a grandi musicisti come Mayo Thompson oppure Captain Beefheart (così come quelli rivolti al kraut-rock e ai Can) non renderebbero appieno l’idea dei contenuti di questo disco degli Anthroprophh, trio di base a Bristol e capitanato da Paul Allen (The Heads) e completato con la sezione ritmica dei Big Naturals (Gareth Turner e Jesse Webb). “Omegaville” esce su Rocket Recordings e non è un caso: perché proprio gli Heads sono stati infatti il primo gruppo pubblicato sul primo 7″ pubblicato dall’etichetta (sull’altro “lato” c’erano i Lilydamwhite di Gareth Turner); perché solo questa etichetta poteva spingersi fino a questo punto e senza preoccuparsi in nessun modo delle conseguenze. Registrato a Londra presso i Joe’s Garage, “Omegaville” è un doppio LP che definirei completamente fuori di testa: ossessivo, spaziale, complicato ma allo stesso tempo di una immediatezza del suono che può ricordare i momenti più epici del rock and roll acido degli anni settanta (ma potete ricercare epigoni tra gli ultimi lavori di GNOD oppure Bonnacons of Doom)
Il trio non si fa mancare dei momenti più sperimentali, come il tribalismo punk allucinato di “Human Beast”, la sessione a metà tra Acid Mothers Temple e King Gizzard & Lizard Wizard di “Thothb” e le visioni Hunter Thompson del trip conclusivo “Journey Out Of Omegaville and Into The…” che si compie in una estasi allegorica tra vocalismi deliranti, una febbre che rimanda al credo del Colonnello Kurtz di “Apocalypse Now”, una gelida componentistica drone e tastiere fantasma. Ma prima di tutto questo ci sono praticamente nove pezzi di rock and roll acido psichedelico sparato a cento all’ora con dei riff di chitarra degni dei momenti più spettacolari del genere a partire da Blue Cheer e MC5 fino ai giorni d’oggi, tutto pompato con il potentissimo suono del basso e le compulsioni del suono della batteria e le inflessioni noise nel sound che letteralmente grattano, scavano le superfici del cervello dell’ascoltatore e ricercando di aprire loro le teste infilandoci dentro questa musica con la forza: una pratica ortodossa come se fosse praticata da un medico privo di ogni cognizione su cosa sia in realtà il metodo scientifico e al di là di qualsiasi legge etica e morale, mentre gelide eco spaventose vi fanno letteralmente venire i brividi lungo la schiena. “Why Are You Smiling?”
“Omegaville” è un luogo ideale, popolato da visioni spaventose e ossessive, urla ancestrali e fiere feroci e selvagge. È un disco che farà impazzire la gente e per questo non potrete fare a meno che ascoltarlo: perché mai dovreste privarvi di un’esperienza del genere.
JESS WILLIAMSON, “Cosmic Wink” (Sacred Bones Records/Mexican Summer, 2018)
Il terzo LP della cantautrice Jess Williamson è un vero e proprio viaggio all’interno del subconscio. La storia di “Cosmic Wink” (Sacred Bones Records/Mexican Summer) del resto segue una serie di avvenimenti che hanno caratterizzato gli ultimi due anni della vita di Jessie e che hanno segnato l’approdo a un nuovo modello compositivo. Ella stessa spiega come abbia lavorato su se stessa come al disco cercando di interpretrare i contenuti del suo subconscio secondo i dettami di Carl Jung. Una specie di scossa nella sua vita, accompagnata anche dal trasferimento da Austin a Los Angeles in California, e che è alla base di questo disco (anticipato da “Mama Proud” e “I See The White”) che come ha voluto spiegare direttamente Jessie, parla d’amore e allo stesso tempo di dolore, perdita e di senso di colpa. Aspetti contraddittori tra di loro ma che spesso finiscono con l’intrecciarsi nelle pieghe della mente in un processo tipico e che va poi dispiegato con una procedura di analisi introspettiva profonda e libera da preconcetti.
Scritto quasi a quattro mani con il musicista e collaboratore Shane Renfro (RF Shannon), che firma con lei tre delle canzoni del disco (“I See The White”, “Dream State”, “Love On The Piano”) “Cosmic Wink” è un disco che ha le stimmate dei classici della folk psichedelia e del cantautorato americano al femminile degli anni settanta. Anche per questo alcuni confronti come quelli con Agnes Obel oppure Weyes Blood a mio parere non sono esattamente calzanti, mentre sicuramente vi sono delle atmosfere prossime a quelle Amen Dunes per quello che riguarda i caratteri più tipicamente pop e le sfumature California nel suono. Ma il disco è fatto anche di momenti più profondi come “Mama Proud” oppure “Wild Rain”, la ballata per piano “Love On The Piano” e di grande spessore sul piano emotivo come “Thunder Song”.
Nella ricerca di un compromesso tra una pop psichedelia più facile e un cantautorato importante, Jess Williamson realizza un disco che forse non costituisce un capolavoro, ma che nel mezzo di un percorso di crescita interiore e verso una maturità ancora non afferrata completamente, è comunque inattaccabile. Bello.
ASTEROID NO. 4, “Collide” (13 O’Clock Records, 2018)
“Collide” forse è il disco che segna l’approdo a una dimensione più “pop” di uno dei gruppi che hanno segnato in maniera veramente decisiva il rock neo-psichedelico del nostro continente. Se dauna parte gli Asteroid no. 4 non hanno probabilmente mai ottenuto una grandissima popolarità, infatti, questi sono stati in ogni caso variamente oggetto di culto tra gli appassionati e meritatamente spetta loro un posto d’onore tra i tanti gruppi del genere. Voglio dire che ci troviamo veramente davanti a un gruppo che ha dei colpi e delle qualità a tutti i livelli che lo pongono su di un livello superiore rispetto a tutti gli altri. Peraltro il loro primo disco risale a vent’anni fa, parliamo di una lunghssima storia e di cui “Collide” (13 O’Clock Records) costituisce anche una specie di celebrazione.
Curiosamente peraltro il disco non ha ricevuto grandi attenzioni neppure da parte degli appassionati del genere, forse perché storicamente lontano da forme diciamo commerciali e a livello di promozione e immagine, ma il disco è non solo di una bellezza assoluta come i lavori precedenti del gruppo, ma pure realizzato nel segno di una componente che ho voluto introdurre come “pop”, ma che chiaramente significa principalmente una maggiore predilizione della forma canzone più tipica rispetto al passato. Canzoni come “Ghost Garden”, “Explore”, “Collide”, “Weeping Willow”, “Fine of Mimes”, “Remedy”… sono sinceramente pezzi che andrebbero apprezzatei da ogni buon ascoltatore di musica rock, così come anche i momenti più tipicamente psichedelici sono comunque segnati da quel suono sognante e senza tempo sulla scia del sound di Peter Daltrey (hanno registrato un disco assieme nel 2013, lo spettacolar “The Journey”) e dei suoi Kaleidoscope e che comunque presta il fianco a ascoltatori anche più disimpegnati rispetto a alcune spigolosità che qui non esistono e dove immagini in rotazione si accompagnano a un piglio pop-rock tipico e suonato con una grande qualità da parte di musicisti adulti e consapevoli.
Questo perché il gruppo non ha mai avuto bisogno di pose, antemponendo il talento a qualsiasi forma di estetica e riuscendo così a essere semplicemente se stesso e vero punto di riferimento invece che uno dei tanti gruppi del movimento. Ingiustamente non celebrato come meriterebbe, “Collide” qui ne festeggia il ventennale: non posso fare altro che consigliare sinceramente con tutto il cuore questo album e tutto il resto della (anche più sperimentale e meno convenzionale) produzione Asteroid no. 4.
ACID MOTHERS TEMPLE & THE MELTING PARAISE U.F.O., “Electric Dream Ecstasy” (Essence, 2018)
Gli Acid Mothers Temple del guru Kawabata Makoto sono giustamente riconosciuti tra i maestri nel genere psichedelico e del revivalismo che esplose alla fine degli anni ottanta. Nelle sue mille incarnazioni e in una serie innumerevole di pubblicazioni, ogni capitolo del collettivo (sia questa una pubblicazione discografica oppure una sessione dal vivo) costituisce una specie di sfida a ogni forma predefinita di composizione e una vera e propria trance meditativo cosmica nella quale il “maestro” di volta in volta affiancato da un gruppo formato da componenti di diverso numero (la line-up è in qualche modo sempre mutevole anche di concerto in concerto e nello stesso tour), ma che condividano il suo stesso approccio mentale da neo-hippie devoto a una visione del mondo new age mescolata a filosofie orientali e applicata alla musica in quella dimensione acida tipica “Japrocksampler”.
“Electric Dream Ecstasy” è stato registrato da Makoto con quello che si può definire come il nucleo stabile della band in questo ultimo periodo: una nuova sezione ritmica composta da due giovani musicisti di grande talento giapponesi, il bassista Wolf e il batterista Satoshima Nani. Completano la line-up il tastierista Higashi Hiroshi e il vocalist e chitarrista Jyonson Tsu, ma nel disco suona anche il chitarrista e tastierista Mitsuko Tabata e Tsuyama Atsushi . Uscito in edizione limitata con diverse etichette e sotto la denominazione oramai ricorrente come Acid Mothers Temple & The Melting Paraise U.F.O. il disco si può benissimo ascrivere alla categoria delle pubblicazioni più convenzionali del gruppo e che sono forse quelle lì che più rendono merito alla grandezza del gruppo, anche perché effettivamente le pubblicazioni più sperimentali, diciamocelo chiaramente, pure costituendo dei bei trip di acido, finiscono con l’essere troppo dispersive: sono quei tipici dischi che in genera ascolti volentieri e con grande godimento, ma che difficilmente poi ti ritrovi ad ascoltare con una certa frequenza nel corso del tempo.
Qui invece il progetto è mirato e si compone di quattro tracce che costituiscono un compromesso allo sperimentalismo più sfrenato: “From Planet Orb With Love Part 1” è una cavalcata di musica cosmica psichedelica con un grandissimo groove dei suoni di basso e nella quale sullo sfondo ad un certo punto comincia a girare un disco dei Pink Floyd di Syd Barrett in slow-motion: apparentemente sconnesse uno dall’altra, le due tracce si sovrappongono creando un effetto estatico e evocativo che definirei semplicemente magico. “Pink Lady Lemonade” si divide in due parti costruite sullo stesso arpeggio di chitarra acustica ripetuto in maniera ossessiva e tra le cui fessure si insinuano suoni come raggi di sole che passano attraverso le serrande: il sound è ispirato a un certo western fantasma, come certi “spaghetti western” con un orientamento psichedelico tipo quelli politici di Sergio Sollima oppure “I quattro dell’apocalisse” di Lucio Fulci, la cui colonna sonora fu effettivamente curata da un gruppo (i Cook and Benjamin Franklin Group) composto da Vince Tempera, Massimo Luca, Michele Seffer, Franco Di Leo e Tony Esposito. Nella seconda e conclusiva parte del disco lo stesso tema si ripete ad libitum con sovraincisioni e accelerazioni kraut-rock sempre più sfrenate fino a una esplosione cosmica in un crescendo di venti minuti.
La sorpresa è tuttavia lo sperimentalismo art-pop e allo stesso tempo giustamente lynchiano del tema “Sycamore Trees” di David Lynch e Angelo Badalamenti, che fa letteralmente uscire fuori di testa in una maniera veramente schizzata e completamente allucinata come forse neppure il cinema del grande e fondamentale regista riesce a fare. La verità è che per quanto la si possa considerare una cover, Kawabata si appropria letteralmente del suono e della composizione, così come del suo immaginario e ne fa una sua reinterpretrazione totale, la ennesima dimostrazione che il sound de gli Acid Mothers Temple ci appaia più o meno concreto, questo è in ogni caso la manifestazione della mente di Makoto e del suo pensiero che, come ogni grande mente, ha componenti di natura astratta e che se lasciate libere di esprimersi, ci mostrano quella autentica e primitiva forma caotica che costituisce la mente umana.
THE BLANK TAPES, “Candy” (People In A Position To Know, 2018)
Veramente piacevole questo disco di psichedelia e jangle-pop dei Blank Tapes, gruppo che proviene da Los Angeles, California e propone una rielaborazione del sound tipico pop della western coast con una formula rinnovata e una certa freschezza non banale in bassa fedeltà. Il risultato è veramente accattivante: “Paradise” ha tutte le stimmate per essere uno dei dischi più considerati nella psichedelia-pop usciti in questo ultimo periodo e sarà sicuramente interessante vedere che feedback riceverà la band nel prossimo tour europeo previsto tra agosto e settembre.
Scritto completamente Matt Adams, la mente che ha dato vita all’intero progetto e che lo guida sin dal 2003, la produzione del disco è di Eric D. Johnson dei Fruitbats e spinge chiaramente nella direzione di dare alle canzoni una connotazione quanto più sixties è possibile e il risultato è sicuramente efficace. Epigono di gruppi e artisti come Amen Dunes, Temples, The Fresh & Onlys, “Paradise” vede Matt Adams succedersi in canzoni di grande effetto evocativo e solarità sixties pop come “Paradise” e “Thinking About You” (due pezzi veramente molto radiofonici) oppure “Other Places” e in ogni caso con quel tipico sound delle tastiere e chitarre surf come in “It’s In My Mind”. Completano il repertorio in buona sostasnza ballads come “She’s Your Baby” oppure “Candy”, “Feels Like Summer” (costruita sullo stesso giro di “Atmosphere” dei Joy Division) e il Syd Barrett misterioso di “Last Night”. Adams cita Lou Reed come sua fonte diretta, così non sorprende il tentativo più o meno riuscito di evocarlo in pezzi come “Let Yourself Get Down”, ma in verità i riferimenti principali sono tutti da ricercarsi nel mondo del surf-rock californiano oppure al limite in una certa psichedelia pop vintage anche di marca Beatles e in particolare George Harrison e sebbene sicuramente non originale e rievocativo, non si può negare che da questo punto di vista i Blank Tapes abbiano centrato l’obiettivo e fatto un buon disco pop meritevole di tutte le attenzioni del caso. Benvenuti a Big Sur.
(Emiliano D’Aniello)