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“WE’RE NOT THE BEST, BUT WE’RE PRETTY GOOD”.
Nel mese in cui celebriamo trent’anni di Sub Pop ho pensato di considerare il lustro di cui ne ho acquistato più dischi. Sono tre le ragioni: la straordinaria varietà di generi racchiusa in questi solchi, i diversi luoghi di provenienza degli artisti (Londra, Toronto, Hamilton, Parigi…) e una conquistata maturità di ascoltatore. Ecco a detta di chi scrive e in rigoroso ordine cronologico, sette uscite fondamentali tra il 2018 e il 2012, rese possibili anche dalla liaison con la britannica Bella Union. Buon ascolto (e lettura!)
#1. THE GUTTER TWINS, “Saturnalia” (2008)
Si parte forte con due mostri sacri dell’alternative rock e “paladini” della label di Seattle.
Greg Dulli e Mark Lanegan non hanno certo bisogno di presentazioni ai nostri lettori ma la sigla The Gutter Twins che li unisce nel 2008 per l’album “Saturnalia” non è familiare a tutti, anche da me riscoperti solo poco tempo fa grazie ad un’ospitata su Radio Icaro a Fuori Onda. Trattasi di una raccolta di songwriting di prima classe che richiama a turno Led Zeppelin (“Idle Hands”), Tom Waits (“Seven Stories Underground”) e Notwist (“Each To Each”), volando emozionalmente altissimo nel refrain di “God’s Chidren” di Dulli e nel cantato tormentato e bluesy di Lanegan nell’acustica “Who Will Lead Us?”. Sprazzi Dark e Folk completano il quadro, arricchito dopo alcuni mesi dall’Ep “Adorata”: giusto almeno citare tra i collaboratori musicali al progetto Dave Rosser, chitarrista e arrangiatore anche negli ultimi Afghan Whigs tristemente deceduto nell’estate del 2017.
#2. BEACH HOUSE, “Teen Dream” (2010)
Ovvero la consacrazione al grande pubblico per la vocalist franco-americana Victoria Legrand e il chitarrista di Baltimora Alex Scally. Primo disco su Sub Pop e terzo in carriera, registrato nel luglio 2009 ai DreamLand Studio con la supervisione di Chris Coady, descrive in musica proprio il passaggio emozionale dal tramonto degli anni zero (voltando le spalle alle ansie passate in “Used To Be”) all’alba degli anni dieci (nell’immagine del correre davanti agli altri di “Zebra”). La scrittura in particolare del duo ha fatto un imperioso balzo in avanti, suonando anteticamente classica, quasi beatlesiana in episodi quali “Silver Soul” e futuribile nell’up-tempo di marca shoegaze “10 Mile Stereo” che li lega ad altri nomi emergenti dell’indie nello stesso periodo, specie gli amici Grizzly Bear che con “Veckatimest” avevano appena fatto il botto. Similmente “Teen Dream” è stato l’album in cui i Beach House hanno dato tutto loro stessi, il 120% per usare un paragone calcistico. A livello di budget, impegno, creatività. Con “Bloom” del 2012 si completa la maturità e dopo il relativo tour assurgono al ruolo di mio gruppo preferito del momento. L’uscita di “7” nel maggio 2018 (prodotto da Sonic Boom e Alan Moulder) li consolida come punto di riferimento della generazione dreampoppers del nuovo millennio.
#3. MALE BONDING, “Nothing Hurts” (2010)
Trentadue minuti in cui ritrovare tutto ciò che si ama del rock’n’roll: velocità, melodie semplici e quella sensazione unica di carpe diem, celebrare il momento prima che arrivino i tempi bui – l’ultimo brano in scaletta si intitola profeticamente “Worse To Come”. Questo è in sintesi il primo LP dei londinesi Male Bonding, John Arthur Webb (voce, chitarra), Robin Silas Christian (batteria) e Kevin Hendrick (basso). La declinazione del loro suono sta nel mezzo tra il noise di marca Dinosaur Jr (“Nothing Used To Hurt”) e il power-pop fulminante dei Nerves (“Weird Feelings”), con l’endorsement di Rivers Cuomo dei Weezer e un inno slacker alla disillusione come “Year’s Not Long” da consegnare alla storia. Gli dà seguito frettolosamente “Endless Now”, dove la forma prevale sulla sostanza, vuoi per la produzione ragionata di John Agnello (già con Kurt Vile, Buffalo Tom) vuoi per l’abbondanza di riempitivi in tracklist. Poi la frattura con Sub Pop, gli anni lontani dal palco e il ritorno con “Headache” nel 2016, realizzato in autonomia e scaricabile gratis su Internet.
#4. LOW, “C’mon” (2011)
Sotto contratto per l’etichetta dal 2005, in “C’Mon” i Low offrono un prezioso compendio della loro arte. Da un lato, riportando l’ascoltatore negli stessi territori dreamy di “Things We Lost In The Fire” del 2001 con i singoli “Try To Sleep” e “Especially Me” – quest’ultima concessa al prison drama Orange Is The New Black; dall’altro senza rinunciare ai momenti più in linea con lo slowcore di metà anni novanta come “Majesty/Magic” o piuttosto “Witches”, dove la chitarra lancinante di Alan Sparhawk si contrappone alla delicatezza del banjo di David Carroll. Infine per la categoria gemme senza tempo la folkish “You See Everything” con il suadente canto di Mimi Parker e l’intervento alla lap steel di Nels Cline. Proprio la varietà di soluzioni negli arrangiamenti, oltre a tematiche legate ai rapporti interpersonali, differenziano il nono album del trio del Minnesota da quelli che lo hanno preceduto: si prenda di esempio il pur notevole “Drums And Guns” (assaporato nel 2007 all’Estragon di Bologna), lavoro impregnato di elettronica e invettive contro la guerra in Iraq.
Non ci resta che aspettare Settembre per un ulteriore capitolo di una storia meravigliosa.
#5. FLEET FOXES, “Helplessness Blues” (2011)
Arriviamo in cima alla montagna con un disco di cui si è già detto molto su queste pagine e che ha strameritato la prima posizione nei nostri award del 2011. Un difficile secondo album nella sua genesi, ma che ha ripagato degli sforzi Robin Pecknold e soci con un quarto posto nella 200 di Billboard. Certamente “Helplessness Blues” necessita dei dovuti ascolti per la maggiore profondità e ampiezza rispetto all’omonimo esordio: esemplare l’inclusione di due lunghi brani, le suite folk “The Plains/Bitter Dancer” e “The Shrine/An Argument”, che condensano in quattordici minuti gli stilemi musicali di due pietre miliari come “John Barleycorn Must Die” dei Traffic e “Music for Big Pink” a firma The Band. Altrove le melodie si fanno più immediate, “Beduin Dress” cita gli America di “A Horse With No Name” mentre l’incredibile “Lorelai” unisce il giro arpeggiato di “4th Time Around” di Bob Dylan a meraviglie corali di stampo “Pet Sounds”: So guess I got old I was like trash on the sidewalk I guess I knew why Often it’s hard to just sweet talk I was old news to you then Old news, old news to you then. I Fleet Foxes chiudono una raccolta pregna di malinconia ma forte del groove apportato dal poliedrico Josh “Father John Misty” Tilmann sulle note impetuose di “Grown Ocean”, che da sola vale l’intera carriera di altri artisti. Una curiosità: è stato registrato tra le varie locations ai Reciprocal di Seattle, studio di “Bleech”, “Superfuzz BigMuff” e “Dig Me Out”.
#6. WASHED OUT, “Within And Without” (2011)
Quello del georgiano Ernest Greene è uno dei nomi più caldi apparsi nella scena indipendente americana a cavallo dei decenni zero e dieci. Fratello maggiore (classe ’82) di Alan Palomo e Chaz Bundick/Toro Y Moi, tanto per formare un ideale triangolo della chill-wave, si differenzia da questi ultimi per il taglio più sognante – e al contempo ballabile – della proposta. Le sensazioni house preponderanti dell’ EP “Life Of Leisure” del 2009 rimangono in “Echoes”, ma “Within And Without” è il lavoro della maturità di Washed Out che spazia tra la psichedelia gentile di “Eyes Be Closed” e un certo barocchismo melodico alla Prefab Sprout di “Far Away”, con la produzione di Ben H. Allen evidente in tracce come “Soft” e la qualità vocale di Caroline Polachek al servizio della fantastica “You And I”. Splendide infine le liriche di “Amor Fati” dedicate alla moglie: “Inside You’ve Got The Light To Guide Your Faith Decides The World’s Your Gold To Find“. La Sub Pop realizzerà anche il successivo “Paracosm”, album meno sperimentale e a tratti vicino a un pop-rock di maniera.
#7. METZ, “Metz” (2012)
Chiudo la mia Top con l’ottima band canadese, reduce dall’esperienza in studio a Chicago con Steve Albini per le registrazioni di “Strange Peace” uscito lo scorso settembre. Forse dei nomi sin qui citati il più in linea con la storia dell’etichetta, visti i richiami nell’omonimo esordio “Metz” tanto al Seattle Sound quanto al movimento post-hardcore a metà tra Fugazi e Jesus Lizard. Anche se giustamente Alex Edkins (voce e Fender Jazzmaster), Chris Slorach (basso) e Hayden Menzies (batteria) non citano nessuna influenza in particolare per la loro musica. Se dovessi riassumere in una sola qualità i Metz, direi che mettono una passione unica in quello che fanno. Pezzi come “Wet Blanket” e “Sad Pricks” non può averli scritti nessun altro: veloci e al contempo ipnotici, nella lezione dei Mission of Burma – coinvolti infatti in uno split realizzato per il Record Store Day 2016 in cui i due gruppi si sono scambiati “Good, Not Great” e “Get Off”. Altri rabbiosi classici (“Mr.Plague”, “The Swimmer”) dai due lavori successivi potrebbero venire buoni per una futura celebrazione della label formata da Bruce Pavitt e Jonathan Poneman nell’estate 1988.
(Matteo Maioli)