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La Sub Pop Records tra la fine degli anni ottanta e tutti gli anni novanta ha segnato un’epoca e formato e cambiato la cultura musicale di più di una generazione. È stata veramente una rivoluzione culturale però? Che lascito ha prodotto questa “epoca”? Forse la verità è che così come non si è conclusa l’esperienza della Sub Pop Records, allo stesso modo la rivoluzione non si è (ancora) compiuta oppure non tutti l’hanno saputa cogliere per quello che significava e significa veramente.
Emiliano D’Aniello ci dona un racconto personalissimo che però può diventare universale nel momento in cui si comprende che, come diceva Naomi Klein, dire no non è sufficiente per fare una rivoluzione.
Il trentennale della Sub Pop Records penso che meriti anche delle riflessioni e considerazioni di carattere personale, ma magari condivise, che esulino dal contenuto strettamente musicale per capire che cosa questa esperienza abbia significato per molti ragazzi della mia generazione. I dischi della Sub Pop Records e mi riferisco in particolare alla “golden age”, quella tra la fine degli anni ottanta e la prima parte degli anni novanta, sono stati una componente massiva negli ascolti di chi durante quel decennio aveva una età che poi poteva pure essere variabile. Personalmente ho cominciato ad ascoltare musica con cognizione di causa (come molti) quando sono andato alle superiori nel 1997. Una volta almeno funzionava così, oggi forse internet ha cambiato le cose, comunque anche se avevi dei genitori che avevano ascoltato musica, ti mettevi a farlo in maniera decisa solo a quell’età.
Nel 1997 in Italia e in tutto il resto d’Europa era come se fossimo ancora in quello che negli Stati Uniti d’America era stato il 1991. Per lo meno è quello che posso dire per quanto riguarda Napoli, che è la città dove sono nato e dove vito attualmente. Forse è una realtà più periferica rispetto a molte parti del centro-nord Italia oppure la stessa città di Roma per quello che riguarda l’attenzione alla musica “alternative”. Magari in un contesto più vivace da questo punto di vista era più facile entrare in contatto con determinati ascolti. Forse era lo stesso anche a Napoli, non lo so, quello che posso dire è che sicuramente avevo un carattere molto chiuso. Cresciuto (come tanti) in un quartiere difficile, mi ero fatto quella tipica scorza dura che “se mi tocchi, t’ammazzo”, che mi aveva fatto uscire apparentemente indenne dagli anni delle scuole medie, ma invece profondamente ferito nell’anima e completamente sfiduciato in me stesso come negli altri.
Quando vai alle superiori del resto quella scorza non ti serve più neppure a proteggerti (bisognerebbe del resto sempre giocare a carte scoperte e essere se stessi, chiaro): ci sono i collettivi, la politica, le occupazioni, ci sono le ragazze. Ritornare sui propri passi può essere difficile se hai un carattere chiuso. Ci sono delle cose che non sempre riesci a capire e pensi che fare la guerra da solo contro tutto il piccolo mondo che ti circonda sia il più grande atto di ribellione che tu possa fare a tutti gli schemi possibili.
Esperienze adolescenziali turbolente e che saranno poi le stesse di chissà quanti altri ragazzi di ieri come di oggi e la soluzione come sempre è trovare una specie di rifugio, perché a un certo punto non sai chi sei e devi trovare qualche cosa in cui ti devi riconoscere.
Qui arriva la Sub Pop Records.
Internet non c’era. Oppure c’era ma soltanto per qualcuno, non faceva parte della mia vita quotidiana. Gli ascolti che andavano per la maggiore erano quelli che trasmettevano alla televisione, su MTV (MTV Italia cominciò la sua storia proprio nel 1996-1997 del resto) e come dicevo prima in Italia eravamo ancora nel 1991. Cito a caso: Alice In Chains, Mudhoney, Pearl Jam, Afghan Whigs, Soundgarden, gli Screaming Trees (i miei preferiti). Ovviamente i Nirvana. Poi ci si ficcava in genere dentro tutto quello che a livello più mainstream arrivava dagli Stati Uniti d’America: dagli Smashing Pumpkins ai REM e fino ai Red Hot. Quello che arrivava a livello indistinto era dunque, per dirla in una “definizione-magma”, il “grunge”. Il resto erano ascolti che provenivano dal Regno Unito. Soprattutto i Radiohead e il revival dei Cure dopo l’uscita di “Bloodflowers”.
Molti dischi dei gruppi americani che ho nominato alla fine non sono neppure mai usciti su Sub Pop, ma sono tra i primi dischi che io, come un mucchio di altri ragazzi, abbiamo comprato e alla fine sembrava quasi che uscissero tutti per quella etichetta. Chi ci faceva caso… Inoltre bisogna anche comprendere il contesto e considerare che la Sub Pop Records significa Seattle e che Seattle allora significava anche tutto quello che era il movimento no-global che di lì a poco sarebbe esploso in una serie di eventi che avrebbero coinvolto in maniera diretta anche l’Europa e il nostro paese. Il G8, Napoli, Genova, Carlo Giuliani, vittima innocente di una generazione che poi in fondo era stata abbandonata a se stessa e poi il crollo delle torri gemelle, Afghanistan, Iraq… Ti sembrava quasi però in tutto questo “casino” che le cose stessero cambiando e che potevi uscire fuori da quel piccolo mondo e combattere finalmente per qualche cosa di reale e giocando nella stessa squadra che ti eri scelto. Chi in quegli anni non aveva in casa “No Logo” di Naomi Klein? Ma tutto quello che lei scriveva, proprio come i dischi che ascoltavo, era già passato.
Penso che gli orizzonti di quella generazione (ma forse vale lo stesso per tutte le generazioni e poi in maniera differente di volta in volta) fossero limitati. Forse questo vale in particolare per quella oppure questa, chiamatela come vi pare, generazione perché si veniva dopo la caduta del Muro di Berlino, Tangentopoli. Queste cose non erano successe a noi direttamente, ma sembrava quasi che dovessimo “pagare” per quello che era stato: il muro ci era crollato addosso senza che però fossimo stati noi ad abbatterlo. Il risultato lo vediamo oggi. Basta guardarsi attorno: abbiamo una intera generazione cresciuta nella rabbia e nel rancore e che si è chiusa, letteralmente barricata, dentro quel recinto che gli è stato costruito attorno.
Ho rivisitato l’esperienza della Sub Pop Records e di quegli anni nel corso del tempo, rendendomi conto che avere considerato quella esperienza solo come un rifugio non era stato e non è abbastanza. La Sub Pop Records (lasciamo stare le questioni relative se sia oggi una etichetta indipendente oppure una major, nello specifico questo discorso ora non c’entra un accidente e comunque oggi sembra quasi di discutere su se sia nato prima l’uovo oppure la gallina…) ha segnato un’epoca e come detto letteralmente cambiato e formato la cultura musicale e non solo di un sacco di persone. Lo ha fatto in una maniera massiva, come non succedeva dagli anni del punk britannico e forse anche di più, se consideriamo che quello fu tutta una questione soprattutto di estetica e poi sul piano dei contenuti molto più labile e controversa, solo che molte persone sono rimaste ferme e intanto il mondo continuava a andare avanti e cambiare e continua a farlo ancora oggi.
Quante volte sentiamo dire che non ci sono più divisioni ideologie e che avere delle idee non conti più nulla. In fondo è lo stesso che come dire che il rock sia morto. Ma se tu hai un grosso peso dentro, questo non può diventare rabbia oppure rancore, perché tutto questo non c’entra niente con quella “rivoluzione” che uno sognava quando era ragazzo. La Sub Pop Records va vista come una specie di rivoluzione “trotzkista”: come qualche cosa in divenire, è come la vita, è un’esperienza che va colta e che va vissuta, coltivata nel tempo, bisogna continuamente mettersi in discussione, restare sul pezzo. Oggi come ieri ci sono ancora cose in cui credere, così come c’è ancora un sacco di bella musica da ascoltare. Posso dire che non tutto quello che faccia la Sub Pop oggi mi piaccia, così come magari molti dischi (quasi tutti) usciti in quegli anni non mi interessino più come allora. Ma penso che però quella carica che ti davano alcuni dischi allora, così come oggi, e quella disperazione sensibile che ti trasmetteva da ragazzo Kurt Cobain, biondo, bello come Gesù e immolatosi sulla croce per una intera generazione che ancora oggi si rifiuta di vedere, abbiano significato e significhino ancora oggi qualche cosa e che vada al di là di una specie di “iconodulia”.
Emiliano D’Aniello
(30/08/2018)