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Lo premetto subito: contrariamente alla critica (che l’ha sempre acclamata), c’è sempre stato qualcosa che non mi tornava in Anna Calvi. L’esordio omonimo (2011), nonostante l’ineccepibile voglia di emergere (meritatamente, date le doti musicali chiare fin da subito), finiva a mio parere ad essere troppo magniloquente, e cadeva nell’errore di risultare un po’ caricatura delle ispirazioni di Anna (Maria Callas e Scott Walker), soprattutto nell’uso della voce, piuttosto che autentico e sentito disco personale. Detto ciò, fu comunque un album che sgomitò e si fece strada negli ascolti di quell’anno, lasciando però la sensazione che la ragazza avesse ancora molto da dire. Il secondo (“One Breath”, 2013) forse scontava una messa a fuoco meno precisa nella scrittura, dando maggiori enfasi alle particolarità di arrangiamento ma rimanendo su un livello più cerebrale che di cuore. Ecco, quello mancava forse ad entrambi gli album: il cuore.
E invece in questo “Hunter” la cantante inglese ci mette tutta se stessa senza troppo arzigogoli, senza pensarci troppo. I pezzi vengono fuori quindi più semplici, più circolari, più pop, e funzionano senza che Anna ci sbatta davanti le sue qualità vocali, virtuosismi o ricercatezze che precedentemente potevano risultare fini a loro stesse. Si pensi ad un brano come “Wish”: un coinvolgente lato nickcaviano trasporta in un ipnotico ritmo blues tirato da riff di una chitarra dal suono sporco e da cantina (Anna Calvi ci aveva abituato a chitarre più definite e chiare) e il ritornello invitante ed attraente ne fa da inaspettato contraltare. Non c’è calcolo, non ci sono soluzioni a tavolino, c’è solo una canzone che doveva possedere necessariamente, per sua indole intrinseca, due facce così distinte che si intersecano naturalmente bene.
E la naturalezza (il cuore, si diceva all’inizio) si coglie anche quando Anna Calvi si sposta su territori più classici (“Swimming Pool”) che hanno normalmente pericoli di manierismo, perché il tutto è sempre misurato e parco.
Non è che Anna abbia deciso di nascondere totalmente le sue doti, semplicemente le mette in mostra solo quando deve, e quindi è più efficace. Come nell’acuto vocale nel finale di “Don’t Beat The Girl Out Of My Boy”, per il quale si può anche scomodare il paragone ingombrante di “Grace” di Jeff Buckley ma senza che si debba per forza concludere – come si fa sempre per chiunque provi inopinatamente ad ispirarsi a Jeff – che non è riuscita nemmeno a giocare nello stesso campo da gioco dello sfortunato artista. L’unico peccatuccio che dobbiamo perdonare alla Calvi sono i richiami velati di “As A Man” a “History Repeating” dei Propellerheads (cantato della strofa) e ai Kraftwerk/Coldplay nel riff (“Computer Love” / “Talk”), ma – si sa – il pop è un eterno calderone in cui qualche volta si può anche pescare come si faceva nelle enormi cestone di cd scontati in autogrill. Ci sta, senza che si possa gridare allo scandalo.
Peraltro tutte le sorprendenti novità musicali che abbiamo passato in rassegna e che fanno bello sfoggio di loro in “Hunter” finiscono poi, a mio parere, a far passare quasi in secondo piano la caratteristica che più emerge dalle interviste e dalle recensioni del disco, ovvero la sessualità liquida come tema ricorrente delle liriche dell’intero album. Anna Calvi era un’icona di un certo tipo di donna forte fin dall’inizio senza che dovesse a questo tema dedicarci un disco: diciamo che era il messaggio che ha fatto trasparire fin dall’inizio con il suo stesso porsi, il suo essere chitarrista tecnica (ruolo solitamente appannaggio di uomini) o la sua capacità vocale potente e grintosa, e la si è subito accolta come una vera protagonista dei nostri tempi proprio per queste ragioni. Sottolinearlo ulteriormente pare quasi prevedibile e scontato. Molto più interessante invece mi è parso il lavoro estetico fatto per “Hunter”, con quel rosso che domina la copertina preannunciato da fantastiche foto rosse pubblicate sul profilo Instagram della Calvi nelle settimane che precedevano l’uscita, un lavoro di preparazione della release puntuale ed intrigante che avrebbe fatto definire questo tempo della Calvi come il suo periodo rosso anche senza aver ascoltato l’album.
E ora che l’abbiamo pure vissuto, “Hunter”, confermiamo e rincariamo la dose: un disco “rosso scarlatto” come le sue labbra ma, soprattutto, come il suo cuore.
80/100
(Paolo Bardelli)