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“A man writes because he is tormented, because he doubts. He needs to constantly prove to himself and the others that he’s worth something. And if I know for sure that I’m a genius? Why write then? What the hell for?”
Andrej Arsen’evic Tarkovskij (1932-1986)
OH SEES, “Smote Reverser” (Castle Face, 2018)
Un nuovo disco de gli Oh Sees, l’ennesima ridenominazione data da John Dwyer al suo progetto musicale e adottata con la pubblicazione di “Orc” lo scorso anno, non si può sicuramente considerare come una sorpresa, ma arriva inevitabile e puntuale andando ad accrescere una discografia che oramai vanta almeno una ventina di pubblicazioni. Un aspetto che in maniera altrettanto inevitabile viene osteggiato dai “puristi” che ritengono ogni singola pubblicazione debba essere oggetto di perfezionismo e curata nei minimi dettagli, perché bisogna essere pronti prima di proporsi al pubblico ecc. ecc.
Ci sono un mucchio di critici musicali che scrivono anche per testate storiche che fanno questo tipo di prediche e che sinceramente mi sento di respingere a nome non solo degli Oh Sees ma di tutti i ragazzi più o meno giovani che fanno oppure vogliano fare musica: fate quello che vi pare. Date sfogo ai vostri istinti. Scatenatevi. Del resto forse la cosiddetta musica liquida, ma pure questa è storia vecchia, avrà forse ammazzato il mercato discografico, ma chi se ne frega, quello che conta veramente è la musica, sono i contenuti e John Dwyer da questo punto di vista (così come Ty Segall) incarna alla perfezione questo spirito libertario e scevro da ogni forma pre-esistente di musicista rock, così come è sicuramente il principale esponente di una cultura garage psichedelica che abbia dei connotati ideologicamente in qualche maniera sicuramente punk. Per lo meno nel senso di “ribellione” e di musica fuori dagli schemi e senza tutte quelle estremizzazioni a volte patetiche e nichiliste mutuate nel Regno Unito durante gli anni della Tatcher e che in fondo non avevano niente a che fare con una cultura veramente aperta sul piano sociale.
“Smote Reverser” esce sulla solita Castle Face Records di John Dwyer e in qualche maniera forse con meno attenzioni rispetto alle pubblicazioni degli ultimi tre-quattro anni e che hanno forte portato la band al massimo della sua popolarità. Ma questa forse è una cosa buona perché come abbiamo visto, sul piano della diffusione culturale, quello che si presenta in qualche maniera senza grossi fuochi d’artificio, poi raccoglie più consensi e questo disco qui è sicuramente buono e alla fine riesce pure a avere qualche spunto inedito rispetto ad altri album del gruppo. A parte il carattere schizofrenico e allucinato tipicamente John Dwyer che chiaramente non può mancare mai e si fa sentire forte sin dalle prime battute con “Sentient Oona”, quel sound oramai celebrato dai King Gizzard tipo “Enrique El Cobrador”, “C” e la ferocia di “Overthrown”, sorprendono suoni come quelli di “Last Peace”, sorretta da un arpeggio elettrico ipnotico e un cantato a bassa intensità evocativo, suggestioni da incantatore di serpenti riprese nei galleggiamenti di “Moon Bog” e “Files Bump Against The Class”, un certo tocco al sound che si può sicuramente definire vintage con un ampio uso delle tastiere e eternato in canzoni di psichedelia più tradizionale come “Beat Quest” e la sessione di dodici minuti di “Anthemic Aggressor” che in una dimensione moderna riprende forme free-form anche rock tradizionali con imperiosi groove di basso, grandi sezioni di batteria, organi elettrici impazziti e riff di chitarra ispirati dal demonio (senti pure “Absymal Urn”).
Nel caso di Ty Segall mi sono sbilanciato considerando “Freedom’s Goblin” (Drag City) come il disco che lo consacra come il Syd Barrett, il John Lennon, il Kurt Cobain di questa generazione, ma non me la sento di considerare questo disco come una specie di suo epigono Oh Sees. La verità è che John Dwyer e Ty Segall, tutti e due portano avanti il loro percorso artistico, arricchendolo di volta in volta di argomenti e senza assumere un atteggiamento programmatico. Le cose nel loro caso semplicemente succedono e questo ha un valore enorme sul piano artistico come su quello semplicemente umano e della comunicazione. Un modello.
FIREFRIEND, “Yellow Spider” (Little Cloud Records, 2018)
Spendo molto volentieri due parole su questa nuova pubblicazione (sempre su Little Cloud Records) dei Firefriend e che segue di pochi mesi il precedente LP “Sulfur”, che ho già presentato su queste pagine lo scorso aprile. In effetti il disco, “Yellow Spider”, era in preparazione proprio nello stessso periodo in cui la “bestia a tre teste” di Sao Paulo, Brasile, si presentava sulle scene con questo lancio da parte dell’etichetta di Portland e la cui copertina ci invitava in maniera irriverente e maliziosa a contemplare in quella esplosione orgasmica quella stessa forza generatrice dell’universo e mettendo idealmente al centro di un mondo rock psichedelico che molto spesso si compiace di se stesso in un pavoneggiarsi maschilista e sciovinista, l’universo femminile come protagonista assoluto.
“Yellow Spider” è un disco che nasce dal ventre di un paese come il Brasile che è carico di contraddizioni di ogni tipo e che si avvicina a una tornata elettorale decisiva per il proprio futuro, questo spiega allo stesso tempo sia il sound oscuro delle canzoni come quella attitudine garage e situazionista e allo stesso tempo questa sessualità e verve femminile che possiamo visivamente immaginare come la natura ha voluto il processo che segue l’accoppiamento di determinate specie di ragno. Il sound del trio si fa qui ancora più corposo e marcato, le linee di basso sono decise come tratti di mascara sul volto ceruleo di un cadavere, i ritmi sostenuti e spigolosi come le costole che sporgono nel corpo scavato di un Gesù Cristo in croce e voci distorte e ammiccanti che fanno il verso a Lydia Lunch. Si va da alcuni rimandi ai Ride (“Surface To Air”, “Yellow Spider”) al furore noise Singapore Sling di “Ultra-Violet Thing” e la litania blur BJM di “The Third Wave” ma non mancano sterzate nello stile dei Pavement come alcune allegorie Os Mutantes che traggono una linea diretta dalla tradizione pop psichedelica brasiliana anni sessanta fino al giorno d’oggi e alla ricerca di una dimensione psichedelica dove tropicalismo significhi libertà. Anzi ribellione.
THE MYRRORS, “Fuzz Club Session” (Fuzz Club Records, 2018)
Sempre interessanti queste “Fuzz Club Session” che la label londinese propone periodicamente e che questa volta vedono come ospiti d’eccellenza i Myrrors di Nik Rayne (completano la formazione: Miguel Urbina alla viola, Grant Beyschau alla batteria e al sassofono, Prabijt Virdee al basso elettrico), la band dell’Arizona che con questa registrazione ai Pool Studios di Londra lo scorso febbraio, anticipa la pubblicazione del prossimo LP che dovrebbe avvenire entro la fine dell’anno. Tutto questo dopo una serie di LP e pubblicazioni collaterali (su Fuzz Club uno split con Cult Of Dom Keller e un EP) culminate con “Hasta La Victoria” uscito lo scorso anno su Beyond Beyond Is Beyond e di cui questa session costituisce il seguito ideale e mentre Nik Rayne è atteso al festival della Fuzz Club a Eindhoven per una performance solista inedita.
Insomma diciamo che c’è molta carne a cuocere per quello che riguarda i Myrrors e questo è solo un bene perché parliamo di una delle band più interessanti in circolazione e che hanno saputo ritagliarsi una dimensione unica nel panorama della neo-psichedelia, superando di gran lunga i canoni stilizzati del genere e assumendo una dignità propria e unica.
Comprensivo di tre tracce per una durata di una mezz’ora e mixato da Mike Burnham, il disco è una combinazione tra sonorità drone e una forma di sciamanesimo rituale che ricorda quelle manifestazioni di culto degli indiani d’America e che poi in fondo sono prossime a assunzioni spirituali della bibbia oppure forme di buddhismo come lo zen e che fanno parte del patrimonio e le radici culturali dell’Arizona.
Il sound nel complesso, come accennato, si allinea a quello di “Hasta La Victoria”: permane quella forma di omaggio nei confronti dello Spaghetti Western e l’ispirazione morriconiana, ma si accentuano le vibrazioni droniche e più sperimentali e che sono spinte a un livello superiore e calate in una ambientazione lunare: lo sciamare di vespe sotto il sole del deserto dell’Arizona si accompagna alle visioni di Manitù e forme di avant-jazz che ricordano sperimentalismi Tuxedomoon oppure The Ex (“Juanito Laguna Duerme Con Los Grillos”), prolungati riverberi di kraut-rock in slow-motion (“Note From The Underground”) e a coronare il tutto uno spettacolare e intelligente uso del suono della viola e del sassofono, che rende il suono ancora più compatto e allo stesso tempo suggestivo e allucinato come assumere peyote nelle remote cave delle Whetstone Mountains, dove una volta tutto quello che potevi vedere era territorio Apache.
CHATHAM RISE, “Meadowsweet” (Picture In My Ear Records, 2018)
Dopo qualche mese dalla sua uscita, sono finalmente riuscito a ascoltare con grande soddisfazione il secondo LP dei Chatham Rise, una delle band di culto del movimento neo-psichedelico proveniente dagli Stati Uniti d’America e più specificamente dalla città di Minneapolis nel Minnesota. Già apprezzato per il suo primo LP e per la pubblicazione di uno split con i Thelightshines, il gruppo si è fatto attendere prima di pubblicare questo come-back intitolato “Meadowsweet” e lanciato dalla solita Picture In My Ear Records, etichetta che poi è proprio di base a Minneapolis e come tale strettamente legata al gruppo.
Va detto che il titolo dell’album “Meadowsweet” potrebbe trarre in confusione, perché questo era già il singolo dato a un precedente singolo (uscito in occasione del già menzionato split con Thelightshines) e mixato da Mark Gardener dei Ride, uno dei principali punti di riferimento di un gruppo che ha una certa vocazione psichedelica che guarda a esperienze shoegaze del vecchio continente e fino a essere stato avvicinato anche ai migliori momenti di un gruppo più pop come i Verve. Sullo sfondo chiaramente una certa matrice Brian Jonestown Massacre (il gruppo ha fatto da “spalla” a Anton Newcombe e compagni durante alcune date dell’ultimo tour negli US la scorsa primavera) che si può considerare oramai un classico per i gruppi del genere.
Del resto proprio alla corrente più “classica” del revival US neo-psichedelico assegnerei proprio i Chatham Rise, che sono un gruppo che può ricordare tanto i BJM quanto gli Asteroid n. 4 e certi momenti i Warlocks, pure non avendo quello stesso furore elettrico caratteristico del sound della chitarra di Bobby Hecksher (adesso impegnato in parte con il nuovo progetto di Matt Hollywood). Prevale in ogni caso più che una attitudine elettrica qui la rappresentazione di paesaggi immaginari e dimensioni estatiche, incentivate dall’uso dei synth e eco e effettistica che più che spingere sull’acceleratore, va nella direzione di aumentare i riverberi secondo uno stile ossessivo in slow-motion che riprende gli Spacemen 3 e i quattro big-four dello shoegaze. Il risultato è un disco più che sufficiente e che penso possa piacere a una vasta audience per il suo carattere più “pop”. Ma mai banale of course.
RESURRECTION COMMITTEE, “Join!” (Strawberry Coffin, 2018)
Bello e accattivante il disco di questo gruppo proveniente da Vancouver. I Resurrection Commitee si possono considerare a tutti gli effetti una novità, dato che sono in circolazione da poco tempo e solo da poco tempo stanno cominciando a farsi conoscere in giro per tutto lo stato della British Columbia e in Canada. Esponenti di punta di una scena neo-psichedelica garage in crescita, il gruppo è un quintetto formato da Hilarmous Humdinger, Ben Morris, Tyler Murray, Rainer Johnson e ES Peter, che poi è anche chi si è effettivamente occupato di tutto il lavoro di registrazione, mastering e mixaggio del disco.
Il risultato è “Join!” (Strawberry Coffin) che è un disco veramente molto interessante e che costruito sul revival della garage psichedelia anni sessanta tipo Blue Cheer e sull’esempio di quanto fatto negli ultimi anni ad gruppi come Psychic Ills oppure Dead Meadow, gli Holy Wave, mostra invero una certa elasticità per quello che riguarda i suoni e le diverse flessioni compositive che il gruppo riesce a mettere in piedi passando con una certa disinvoltura da un mood a un altro. Un esempio tipico è “Kerosene” che parte come una specie di ballads oscura con venature blues per poi aprirsi in un pezzo garage assolutamente ballabile e acidissimo. La maggior parte del disco ha più o meno questo tipo di sound, con qualche momento rock-blues più accentuato e rimandi alla psichedelia orientale nello stile anni sessanta-settanta (“Drop Your Skin”…). Fanno eccezione probabilmente due episodi in particolare come “Jesus”, chiaramente modellata nello stile degli Spacemen 3 e secondo me un pezzo poco riuscito e forse anche fuori contesto; “Desire You”, che invece è veramente un gran bel pezzo e apre a una psichedelia più del tipo western coast. In definitiva un disco marcatamente vintage e rock and roll, l’ideale da mandare in un locale per far ballare un po’ di gente. Ammesso ci sia ancora qualcuno che voglia veramente ballare del rock and roll.
BOY AZOOGA, “1, 2, Kung Fu!” (Heavenly Recordings, 2018)
Alla fine quando con gli altri ragazzi di Kalporz abbiamo pensato di cominciare questo tipo di rassegna, non avevo ben chiaro come avrei dovuto procedere nella scelta dei dischi: le uniche due costanti che mi ero ripromesso di mantenere sarebbero state quelle di proporre dischi nuovi o comunque relativamente recenti, la seconda è chiaramente quella di restare all’interno dell’ambito del genere psichedelico e derivati. In alcuni casi poi è sicuramente capitato di andare al “confine”, ma siamo sempre rimasti nei ranghi e allo stesso modo è successo anche di proporre dei dischi che io non abbia considerato buoni oppure che ritengo semplicemente scadenti. Nel caso di “1, 2, Kung Fu!” (Heavenly Recordings) di Boy Azooga forse si combinano tutte e due le componenti. Intanto perché il sound di questo gruppo (che poi è fondamentalmente una creatura unica di Davey Newington, ragazzetto di Cardiff nel Galles con uno spiccato talento per la musica pop) non si può definire propriamente rock-psichedelico in senso stretto o comunque ci sono un mucchio di componenti derivate da altri generi e che poi ti fanno dare quella definizione di “indie” che alla fine non significa niente. Secondariamente perché proprio per tutte queste ragioni, il disco per quanto ascoltabile, non riesco a considerarlo una pubblicazione che gli appassionati del genere apprezzeranno in ogni caso.
Eppure… Eppure qualche cosa si muove. Voglio dire che alcuni spunti di Davey sono oggettivamente buoni: va detto che egli stesso menziona componenti interessanti come punti di riferimento, nomina addirittura William Onyeabor (ma se escludiamo un certo groove, non aspettativi nulla del genere che rimarreste delusi), e alla fine quando nomina i Beach Boys fa centro. Come non avvicinare allo storico gruppo pop-psichedelico momenti come “Walking Thompson’s Park”, “Jerry” (pensate pure a un certo sound Temples), “Breakfast Epiphany II”, “Losers In The Tomb” e ancora “Hangover Squadre”. Sostituite solo le coste californiane con i prati all’inglese però magari d’estate e con il sole in cielo bello alto.
Il resto del disco è però secondo me francamente brutto e inutile, perché in pratica riprende quelle forme di contaminazioni forzate tipo Tampe Impala oppure The Strokes tarda maniera che sembrano ti fanno pensare più a una discoteca in uno stile post-Andy Warhol e dove tutto è praticamente volto alla più totale inutilità.
Così questa non si può considerare una stroncatura vera e propria, anche perché in fondo quali aspettative avrei avuto nell’avvicinarmi a questo ascolto, francamente nessuna, quindi… E poi va detto che se cercate un disco pop, solare, con quel tipo di rievocazioni sixties e magari vi piacciono pure i già nominati Tampe Impala, che sono peraltro caposcuola di un genere che si sta diffondendo anche in maniera massiva, be’ allora questo potrebbe persino per voi essere uno dei dischi di questa estate. Per me però no.
GARCIA PEOPLES, “Cosmic Cash” (Beyond Beyond Is Beyond Records, 2018)
Aveva già accennato a questa brand new band nel roster della Beyond Beyond Records e proveniente dal New Jersey, la nostra mitica Monica Mazzoli nella Summer Edition di “Scoutlcloud” pubblicata lo scorso agosto. Il gruppo si chiama Garcia Peoples, il loro primo LP (anticipato dalla pubblicazione di una “Suite” in cinque pezzi e che poi costituisce il cuore dell’album) è “Cosmic Cash”, un album che ha le stimmate dei grandi classici del rock degli anni settanta e che chi lo sa, forse suona pure in qualche maniera fuori tempo, ma allo stesso tempo in un mood rock and roll che raramente viene ripreso nella psichedelia, che si ispira più o alle esperienze della west coast oppure al sound british di derivazione Beatles. Qui invece il rock and roll del quintetto formato da Tom Malach, Cesar e Danny Arakaki e Derek Spaldo più l’aggiunta del tastierista PG Six ha una matrice più tipicamente USA e che ricorda il sound di gruppi epici come i Creedence Clearwater Revival e la scrittura di John Fogerty, quindi quella attitudine rock and roll più selvaggia e legata a miti come Woodstock oppure Easy Rider e la psichedelia jam forse più convenzionale ma con quella piacevolezza all’ascolto che è in qualche maniera immortale.
Come detto, il disco è costruito tutto intorno a questa lunga “Suite”, che è composta effettivamente da cinque pezzi differenti condensati in quattordici minuti di musica e in cui il gruppo da prova del proprio carattere eclettico e proprio di quella ispirazione jam di base sviluppata nel rock-blues acido di “Hangin’ On” oppure “Show Your Troubles Out” e il rock and roll sinfonico di “The Sweet Lie” che alterna momenti trionfali a passaggi subliminali arpeggiati che scivolano lungo la paletta delle chitarre con quel mood rassicurante come lanciarsi in un viaggio senza nessuna destinazione precisa. Restano poi le due ballads “Four Walls” e “I Ain’t Hurt”, che ancora ricerca dei picchi di gloria elettrica, dimostrazione tanto di talento quanto di semplicità compositiva, come sapere scrivere delle canzoni così sul palmo della mano e registrarle al volo, prima di rimettersi in auto e viaggiare da una parte all’altra degli Stati Uniti d’America. Non era questo in fondo il sogno che il rock and roll aveva regalato a tutti sin dalle origini. Che fine abbia fatto oggi quel sogno esattamente non lo so, ci sarebbe molto e molto da dire al riguardo, però evidentemente qualcuno lo insegue ancora e forse prima o poi riuscirà a prenderlo oppure a capire che i sogni non si possono afferrare, ma solo vivere dall’inizio alla fine. Bravi.
Emiliano D’Aniello