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I periodi di crisi sono periodi di fermento e di opportunità, momenti in cui si esprimono nuovi bisogni, e in cui si dà voce a nuove e crescenti esigenze. Devono saperlo bene in Inghilterra, un paese che nel bel mezzo del fenomeno Brexit sta vivendo un momento di vivacità culturale che fatica a trovare altrettanti riscontri nel resto d’Europa. Vivacità che si nota anche e soprattutto se si dà uno sguardo alla scena musicale d’oltremanica, in grado di far emergere progetti tutti accomunati da una forte attenzione per i temi sociali, per il ritorno della cultura nazionalista e per le derive fascistoidi che stanno attraversando il Vecchio Continente e che hanno investito il Regno Unito. Band come Sleaford Mods, Savages e Fat White Family, seguiti dai vari Shame, Cabbage, Heavy Lungs e, non da ultimi, gli Idles.
La band di Talbot e soci l’avevamo scoperta con quello che forse è stato uno dei migliori esordi dello scorso anno: un disco, Brutalism, che se non lo avete ancora ascoltato dovete assolutamente andare a recuperare perché è in grado di esprimere una chiarezza di idee e una determinazione non comuni.
Quest’anno gli Idles ritornano con la loro seconda fatica, e non è mai facile ripetersi, dopo un esordio così importante e promettente. Loro, invece, sembrano non sentire affatto la pressione, e senza cedere alle strizzatine d’occhio del mondo mainstream, vanno avanti per la loro strada e, anzi, alzano il tiro. Perché se i ragazzi di Bristol ci avevano già fatto capire di trovarsi a proprio agio nel tirar fuori canzoni piene di rabbia viscerale e allo stesso tempo cariche di melodia, questo nuovo album è un’ulteriore prova della loro bravura. E il titolo scelto, Joy as an Act of Resistance, è il segno inconfutabile della loro consapevolezza in questo senso.
Il brano d’esordio, “Colossus”, ci introduce presso un’altra delle figure riferimento di John Talbot: se il disco precedente era infatti consacrato alla femminilità e in modo particolare alla figura della madre, qui è la figura paterna ad ergersi come un colosso (quel Nigel Talbot che, in una intervista al Glascow Live, viene descritto dal figlio come una figura di riferimento imprescindibile, e che è anche autore della scultura che appare nella copertina del primo disco della band).
Ed è infatti la figura della masculinità a costituire l’elemento portante di questo disco, analizzata e scandagliata a dovere in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue sfaccettature. Prendiamo un brano come “Samaritans”, ad esempio, il cui testo è basato su un elenco di appellativi/insulti che vengono rivolti ai piccoli maschi quando mostrano troppo facilmente il loro lato emotivo (“Grow some balls, he said”), confermando un’immagine della masculinità che si rivela però una semplice maschera: “this is why you’ll never see your father crying”.
Quello che viene smontato pezzo dopo pezzo, in un vero e proprio concept politico-sociale, è lo stereotipo fascista della masculinità: basta dare un ascolto a brani come “I’m Scum”, o ancora a “Never Fight a Man With A Perm”, dove non manca l’ironia per il vero duro tutto asfalto, cuoio e ciuffo, pronto a menare le mani in ogni occasione.
E poi c’è “June”, uno dei brani più toccanti e commoventi di tutto l’album, il capolavoro che probabilmente non sentiremo mai live, perché affronta un dolore troppo grande per poter essere condiviso in pubblico: il sogno frantumato e interrotto di un ragazzo che poteva diventare padre e che invece si ritrova a dover quasi provare vergogna per un dolore indipendente dalla sua volontà e dalle sue azioni.
Joy as an act of resistance è un album che non si vergogna di esaltare le nostre debolezze di esseri umani, di mostrare orgogliosamente le nostre vulnerabilità e le nostre ferite, e che allo stesso tempo è in grado di trovare la sua forza nella gioia dei sentimenti, nei legami familiari, nelle amicizie fraterne al di là di qualsiasi barriera. Andatevi a sentire “Danny Nedelko”, canzone dedicata al frontman degli Heavy lungs, di origini ucraine e quindi immigrato: Talbot canta “He’s made of bones, he’s made of blood/He’s made of flesh, he’s made of love/He’s made of you, he’s made of me/Unity!”
È veramente superfluo commentare questo album da un punto di vista banalmente musicale, dirvi quanto strillano le chitarre, quanto pesta la batteria, o quanto è maledettamente aggressivo il basso. Gli Idles hanno tutto, o almeno tutto quello che serve ad una band punk, in cui l’unica cosa che conta davvero è voler suonare, prima ancora che saper suonare. Quella cosa intraducibile che gli inglesi chiamano “attitude” e che se ce l’hai bene, se non ce l’hai non te la può insegnare nessuno…
92/100
(Gianpaolo Cherchi)