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In un periodo storico in cui è possibile accedere ad una marea di pubblicazioni discografiche con un clic, diventa sempre più difficile per una band trovare un suono che la renda riconoscibile dopo pochi secondi di ascolto. E non si parla solo di una voce con un timbro identificabile o la ritmica prediletta di un producer electro, ma di quel qualcosa in più che ti fa dire “questo pezzo l’ha fatto Pharrell” o “un riff così è per forza degli AC/DC”.
Eppure, proprio in questo periodo storico, c’è chi riesce in un modo o nell’altro a trovare un’identità unica nel giro di due album, come i Jungle. Josh Lloyd-Watson and Tom McFarland, due amici d’infanzia di Londra, hanno messo le cose in chiaro fin dal loro debutto nel 2014 con un album omonimo dall’enorme successo: il sound, rappresentato dai tormentoni “Busy Earnin’” e “The Heat”, potrebbe essere descritto come il pop funk anni ’70 tutto-falsetto di Bee Gees e Imagination ma rallentato, ripulito dalle impurità e modernizzato da una produzione ultra pettinata, a prova di pubblicità dei SUV ibridi. Un punto d’incontro tra le band indie dei primi anni ’10 e l’indole della dance del passato, ma sviluppata in modo da essere simile a nient’altro, tanto da rendere riduttiva la targa “neo soul” con cui il duo viene definito ogni tanto. “For Ever”, pubblicato nuovamente dalla XL Recording, arriva dopo quattro anni di attesa durante i quali i Jungle hanno messo in piedi una live band di sette elementi per non lasciare, come hanno dichiarato, nessun suono in base e rendere le esibizioni più coinvolgenti possibili, alla vecchia maniera, e chi ha avuto la fortuna di stare sotto il loro palco può constatare come siano riusciti negli intenti.
Il nuovo album non si sposta granché da dove il duo inglese ci aveva lasciato con “Jungle”, cioè in una pista da ballo con colori freddi e piena di gente giusta, che stavolta si muove al ritmo tirato di “Heavy, California” e “Beat 54”. Forse l’unica divergenza significativa tra i due album è che in “For Ever” si balla un po’ meno, perché la tracklist (singoli a parte) è costellata di momenti distesi e di raccoglimento: “Cosurmyne” sembra uno di quei pezzi tutti storti dell’ultimo disco degli Young Fathers, “(More and More) It Ain’t Easy” o “Cherry” potrebbero essere prodotte da James Blake, per quanto son glaciali. Per il resto sono ancora i cari, riconoscibilissimi Jungle, nel bene o nel male: potevamo vanificare tutto l’immaginario costruito intorno al primo album con un lavoro non all’altezza, fortunatamente non è andata così.
70/100
(Stefano D. Ottavio)