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Pollice in su e ghigno sicuro ma sfuocato; così si presenta “Mith”, terzo lavoro dell’afroamericano classe 1950 che per il grande salto passa da Dust -to-Digital a Jagjaguwar.
In molti (me compreso) avevano gridato al miracolo dopo “Just Before Music” del 2012 rimanendo però un po’ deluso dal pur sempre valido ma didascalico “Keeping a Record of It” dell’anno successivo.
Chi conosce le vicende personali di Lonney Holley sa che l’uomo in questione è un artista a tutto tondo che espone la sua arte (sculture rudimentali fatte con oggetti di recupero che sembrano pregne di vita/o di morte) nei più grandi musei d’America e che la sua musica è nata proprio da lì; cercare di dare una voce a qualcosa di astratto. Se i due precedenti lavori erano fatti davvero di nulla, il terzo capitolo è la straordinaria conferma di un’artista che ha dato caratura alla sua arte.
Musica aggressiva, vitale, poetica, libera e difficilmente catalogabile che si snoda in quasi 80 minuti intensi e toccanti.
Accompagnato dal sassofonista (e chitarrista) Sam Gendel (molto bello il suo album jazz “4444” del 2017), dal purtroppo prematuramente scomparso all’età di 41 anni Richard Swift (ex Shins e collaboratore di artisti quali Damien Jurado, Sharon Van Etten e Foxygen), dal musicista Laraaji, dal duo jazz Nelson Patton e dal produttore Shahzad Ismaily, “Mith” veste i flussi di coscienza di Holley con partiture ora soavi ora maestose, ora sommesse ora squillanti, con musica che, confronto al passato, vive, sanguina, non è più un fantasma che mette i brividi ma si riesce perfino a toccare, sentire fino ad attraversarti letteralmente le ossa.
Un disco politico non rassegnato che lancia grandi messaggi di speranza, “I woke up in a fucked-up America – I looked happier – Seein’ the better part of my dream – Of reality, of what the future would be” canta Holley in “I Woke Up in a Fucked-Up America” mentre bordate elettriche di trombone e Moog Bass Pedals ci risvegliano dalla narcolettica sensazione di vivere davvero in un’epoca fatta di incubi. Poi quel pianoforte minimale che in “Back For Me” rievoca alla mente un Tom Waits dadaista e i 17 minuti abbondanti di “I Snuck Off the Slave Ship” sono il canto di protesta di chi comprende che la schiavitù è una piaga ancora da combattere. Un disco magico, che trova il tempo di citare Gil Scott-Heron nella poetica “There Was Always Water” e si chiude in modo scanzonato con la marcetta corale di “Sometimes I Wanna Dance”.
Sei anni fa asserivo che si avrebbe sempre più bisogno di poesia. Questo album di Holley non fa altro che ribadire ed amplificare questo semplice e basilare concetto.
92/100
(Nicola Guerra)