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Penso che il giusto approccio a un nuovo disco di Mark Lanegan – oggi – sia fare tabula rasa per tutto quello che riguarda il passato e la serie di produzioni eccellenti, superlative, sopra le righe dai suoi esordi con gli Screaming Trees e poi attraverso gli anni fino a “Bubblegum” (Beggars Banquet, 2004). Continuare a fare confronti con quanto fatto fino a quel momento diventa in qualche maniera secondo me ostativo e disonesto nel giudicare in maniera equilibrata i suoi nuovi dischi. Oggi Mark Lanegan è per forza di cose un artista diverso da quello che era stato fino a quel momento. Posso dire che per quanto mi riguarda continua a darmi la sensazione di una certa “stanca”, come se gli mancasse quello stesso entusiasmo e quella forza che gli riconosco, ma se poi devo dare un giudizio a questo disco qui per esempio, alla fine partendo con aspettative pari allo zero, posso dire che invece mi sta comunque regalando discrete soddisfazioni.
Intanto la partnership con Duke Garwood (peraltro protagonista di ottime pubblicazioni anche come solista) funziona e questo forse proprio perché rispetto a altre soluzioni, come i Gutter Twins oppure le collaborazioni con QOTSA, Soulsavers e Isobel Campbell, in questo caso specifico Lanegan lavora assieme a un musicista bravo e con il quale condivide non solo un certo feeling e attitudine verso atmosfere blues oscure, crepuscolari, ma che anche accondiscende senza nessuna spettacolarizzazione questo suo vibe gospel slow-motion che è quasi un biascicare parole come un ubriaco, una specie di vociare fantasma, una cantilena grattugiata e poi gli scenari sono sempre quelli, un uomo solo oppure – perché no – una donna, la bottiglia di whiskey, il luccichio della sigaretta e le ceneri che cadono sul pavimento della camera da letto deserta mentre tutto diventa indistinto in una bolla di fumo.
Alla fine “With Animals” è un passo avanti rispetto a “Black Pudding” (Heavenly, 2013): i due nostri eroi hanno avuto modo di conoscersi meglio (la collaborazione è andata avanti anche con l’album “Gargoyle”, Heavenly), si sono annusati come fanno i cani randagi e hanno sciolto ogni diffidenza, così adesso sciorinano vecchi recital blues con la facilità che si riconosce a due musicisti navigati e che conoscono il mestiere. Garwood ha cominciato le registrazioni da solo, seguendo il suo istinto secondo una specie di flusso di coscienza, poi completare il lavoro per Lanegan è stato semplice: il risultato è questo album in cui si fanno notare la potenza dei bassi, atmosfere drone bucoliche, ripetizioni rituali secondo una specie di meccanica blues che oramai costituisce una vera e propria istituzione del genere e prassi consolidata. Anticipato da “Save Me” lo scorso maggio, la sensazione che ne deriva dall’ascolto è che alla fine i testi quasi contino poco o nulla: Lanegan usa la voce quasi come un complemento delle musiche di Garwood. Questo chiaramente può piacere come no. Definire questo disco come un ottimo lavoro è una esagerazione, ma dire che ha comunque dei connotati particolari, che suona come una specie di blues sotterraneo, ma nel senso proprio di scavato sotto la terra con un badile come se si volesse dissotterrare il cadavere di Nuvola Rossa oppure di qualche altro stregone indiano, ecco, questa non è sicuramente una blasfemia e penso che pure Manitù, quello stesso spirito santo già più volte evocato nei dischi di Lanegan nel corso degli anni, sarebbe d’accordo.
74/100
(Emiliano D’Aniello)