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La premiata ditta dei fratelli Phil e Paul Hartnoll riapre i battenti dopo aver dichiarato terminata l’esperienza Orbital per ben due volte, prima nel 2004 e poi dopo la reunion dal 2009 al 2014. Il duo è in attività dal lontano 1989, quando bastava una drum machine e un sintetizzatore TB-303 per farsi strada (si fa per dire) nella scena dei rave organizzati attorno alla autostrada M25 che circonda Londra, da qui il nome Orbital. Nella loro lunga carriera sono riusciti ad elaborare un proprio stile contaminato partendo dai primi ingenui lavori di stampo acid house, incorporando un certo modo di fare ambient con l’album “Snivilisation” del 1994, passando per il remix di una canzone di Madonna, il debutto di Alison Goldfrapp, i lavori in ambito cinematografico, fino al successo di “In Sides” del 1996 e “The Middle of Nowere” del 1999.
Quello che viene dopo è tutto sommato trascurabile, anche se non banale, alle orecchie di chi scrive, fino all’attuale “Monsters Exist”, nono album della formazione (l’album precedente “Wonky” risale al 2012) rilasciato alle stampe tramite la propria etichetta ACP il 14 settembre 2018 e anticipato dai singoli “Tiny Foldable City” e “P.H.U.C.K.”
Con questo disco sembra quasi che i due fratelli abbiano voluto riassumere e sintetizzare il lavoro di questi quasi trent’anni di onorata carriera, mischiando in una sorta di album della maturità le varie esperienze tra i generi techno, ambient, electro, atmosfere di un certo cinema post apocalittico, fino a interpretare situazioni più gioiose e vicine alla dance commerciale. In tutta onestà, il primo ascolto suggerisce l’idea che nulla venga aggiunto al panorama della musica elettronica, non c’è alcuna rivoluzione, nessuna nuova tendenza o nuovi suoni. Ma il disco è prodotto con standard molto elevati, con una elettronica sicuramente di stampo analogico, con l’alternarsi di situazioni diverse per ritmo e vivacità (nella versione deluxe dell’album troviamo tra le bonus track una chitarra acustica).
In un mondo di musica liquida, fruita in streaming, merita una segnalazione la copertina dell’album: si tratta di un lavoro originale dell’artista John Greenwood che da sempre collabora con i fratelli Hartnoll e che in qualche modo, con le dovute proporzioni, rimanda alla mente il lavoro originale di Klaus Voormann per la copertina di Revolver dei Beatles.
L’album si apre in maniera quasi teatrale con il pezzo che dà il titolo all’album: i mostri sembrano esistere in questa rielaborazione onirica in chiave dubstep di quegli stessi piccoli mostri che troviamo sulla copertina. La traccia successiva “Hoo Hoo Ha Ha” riporta la barra in ambito prettamente dance, quasi dance commerciale, che scorre via senza la necessità di particolari note. Quasi divertente ma al limite del noioso.
La traccia successiva “The Raid”, invece, trascina l’ascoltatore fin dalle prime note, con un ritmo quasi down-tempo, in un universo cinematografico post apocalittico stile Mad Max (o un altro a vostra scelta) nel quale, chiudendo gli occhi e utilizzando l’immaginazione o la memoria, ognuno può costruire la propria scena madre. Pezzo notevole.
Il singolo successivo “P.H.U.C.K.” ancora una volta cambia il ritmo e l’ambientazione riportando l’ascoltatore nei territori primordiali acid house (non si riconosce il timbro della TB-303 ma il riferimento è senza dubbio quello all’inizio del brano) tramite un notevole impegno dell’arpeggiatore e del delay che diventa quasi predominate nel successivo capitolo in chiave electro della traccia successiva “Tiny Foldable Cities”.
Altro cambio di ritmo e stile nelle due tracce “Buried Deep Within” e “Vision OnE” che, utilizzando suoni ambient, puntano molto sulla melodia e risultano due begli esempi di repertorio techno/trance, sicuramente i più riusciti in questo senso.
La successiva “The End is Nigh” è di più difficile collocazione: non è dance, non è ambient e non sembra nemmeno electro. Ma non sempre è necessario trovare per forza una collocazione e né questo significa aver definito un nuovo stile. Volendo essere più critici, forse si potrebbe dire che non è proprio chiaro quale sia il significato di questo pezzo e la tentazione di skippare la traccia è molto forte.
Il disco si conclude infine con “There Will Come a Time” con cui i fratelli Hartnoll si congedano ricordandoci, tramite uno speech del prof. Brian Cox, in perfetto accento inglese su ambientazioni prettamente ambient, l’ineluttabilità della nostra fine materiale confrontata con l’eternità dell’universo se visto dal nostro, purtroppo limitato, punto di vista. Probabilmente il pezzo più interessante del disco.
In conclusione, il disco risulta un buon prodotto, confezionato molto bene e con elevati livelli di professionalità, ma questo da Orbital ce lo possiamo tranquillamente aspettare. Da un punto di vista artistico, i “nostri” senza dubbio non inventano nulla e nella sua complessità, pur mancando a volte di un senso comune, il disco può essere sicuramente considerato un discreto lavoro della maturità.
69/100
(Alessandro Crivellaro)