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Jorge Elbrecht e Jack Tatum. “Indigo” poteva essere pubblicato a loro nome per come rappresenta ed esprime i tratti connotanti sia dell’uno che dell’altro. Tatum è il detentore del logo Wild Nothing, condotto sin qui con apprezzamenti alterni ma con una dedizione e una continuità lodevoli. Jorge Elbrecht, l’altro, è invece il musicista poliedrico e omnidirezionale che ha suonato in una vastità di progetti e prodotto personaggi interessantissimi (Gang Gang Dance, per dire…).
Antitetici e simili, quindi. Complementari nel curriculum, speculari nell’approccio viscerale alla propria e all’altrui musica. Elbrecht, reduce da un buon lavoro solista (dopo i trascorsi con Ariel Pink, i Violens, i Lansing-Dreiden tra gli altri) incontra Wild Nothing e produce un disco che non sarà di certo rivoluzionario ma è pieno di esempi di una scrittura pop senza tempo (Bend è una perla psych di valore assoluto).
All’adorabile disco solista di Elbrecht (“Here Lies”, uscito a inizio anno) era comunque mancata una maggiore messa a fuoco di quel mélange tra guitar pop obliquo e delizie in territori Prefab Sprout. Al progetto Wild Nothing, di pari passo è mancata (nel penultimo “Life Of Pause”, per esempio) una spinta sul versante delle dinamiche o un benedetto allargamento della mazzetta dei colori. Come si è già colto, questo è un matrimonio che s’aveva da fare. Fuori dalle mode e lontano dalle luci accecanti è saltato fuori un disco che è un piccolo regalo inatteso (e anche quasi inosservato, sembra).
La mano di Elbrecht pare presente ogni volta che in una canzone si accavallano tre o quattro ritornelli senza il minimo sentore di una forzatura. Barocco senza esserlo, questa è in fondo la sua cifra. Tatum canta in modo meno aspro ma più incisivo del suo solito. C’è qualche eco di Morrissey & Marr (“Oscillation”), ci sono i crismi della Captured Tracks, le impronte dei Cure epoca “Disintegration” e tutto il mondo C86, of course. Ma son cose che sapevamo. L’elemento in più è questa forma di cauta ridondanza. È una ridondanza spigolosa e irregolare, se c’intendiamo. Soprattutto dopo che la parte centrale del disco tende a mostrare un minimo la corda.
Poi, appunto, riparte. Lo fa sfiorando con eleganza lo yacht rock dell’87 e mettendolo a tu per tu col suo polo opposto, quello che parla la lingua post punk. A volte a tre quarti di canzone c’è proprio la virata in questo senso (“Canyon Of Fire”). L’eccellente Mitski ai cori è un’altra carta preziosa (è appena uscito il suo nuovo “Be The Cowboy”). A sentir bene, quello di Indigo è il suono immortale di un VHS consumato, proprio come suggerisce il concept di copertina. Wild Nothing ritrova la freschezza di “Gemini” (2010) attraverso un disco che più lontano da “Gemini” proprio non si poteva.
78/100
(Marco Bachini)